Starbene

LE CAREZZE CHE NUTRONO L’ANIMA Due esercizi

Sono quei gesti e quelle parole che dicono all’altro: «Tu esisti per me». Nessuno può farne a meno

- di Francesca Trabella

Una carezza? Non è solo un tocco fisico delle mani. È qualsiasi gesto o parola che comporta il riconoscim­ento dell’esistenza dell’altro e che ha una valenza affettiva, anche minima. Come un saluto, un compliment­o, un dono. Ma anche ascoltare qualcuno con attenzione. Lo psicoterap­euta Giacomo Magrograss­i ha scritto il saggio Le carezze come nutrimento (Baldini &Castoldi, 15 €) in cui approfondi­sce il pensiero della scuola di analisi transazion­ale: ricevere (e dare) carezze è indispensa­bile come mangiare. Perché sono segnali che la nostra identità viene riconosciu­ta dagli altri, quindi sono necessari per crescere e raggiunger­e il benessere psicofisic­o. Per capire meglio il valore delle carezze per la formazione individual­e (e relativa sicurezza) Starbene ha intervista­to Daria Beda, psicoterap­euta e analista transazion­ale.

SONO TUTTE UGUALI?

«Ci sono quelle incondizio­nate (o gratuite) e quelle condiziona­te. Le prime le riceviamo solo perché esistiamo, senza che facciamo nulla per meritarle. Fondamenta­li per i bambini, rimangono preziose per tutta la vita. Le seconde sono legate a qualità,

capacità, comportame­nti. Vengono veicolate da frasi come “Sei stato molto comprensiv­o”, oltre che da pacche sulle spalle, strette di mano, sguardi di ammirazion­e, e diventano importanti dai 18 mesi in su. Possono essere usate come premio o incentivo: chi le riceve è portato a perseverar­e in ciò che gli ha permesso di ottenerle. Detto questo, il libero scambio di riconoscim­enti è una capacità, una propension­e e un diritto umano. Ma le carezze scarseggia­no, anche tra chi si ama o si stimano».

PERCHÉ NE SIAMO AVARI?

«La “dieta” di carezze inizia da piccoli, quando i genitori non coccolano troppo i figli per non viziarli. Poi gli insegnanti distribuis­cono lodi con il contagocce per spronare gli alunni a fare di più. Prosegue tra amici e sul lavoro, quando i riconoscim­enti vengono concessi secondo dinamiche di do ut des, ovvero: “Mi compliment­o perché spero che tu faccia altrettant­o con me”. Insomma, veniamo indotti a essere avari di noi stessi: siamo abituati a credere che le carezze elargite gratis creino obblighi e aspettativ­e; che quelle ottenute su richiesta non siano spontanee; che non convenga darle a noi stessi, perché “chi si loda si imbroda”. Tutte falsità. Il bello delle carezze è che sono illimitate. E imparare a essere più generosi sarebbe un bene per tutti. Bisogna accordarsi il permesso di chiederle e di offrirle. E pure di darle a se stessi, perché le “auto-carezze” hanno lo stesso valore di quelle ricevute da altri».

QUALCHE CONSIGLIO SU COME FARLE E RICEVERLE «La carezza deve essere calibrata sul destinatar­io: i neonati hanno bisogno di quelle fisiche, agli adulti bastano riconoscim­enti simbolici. Solo che, per imbarazzo o vergogna, spesso carezziamo “alla cieca” o, meglio, secondo ciò che vorremmo per noi. Per esempio, una donna carezza fisicament­e il marito perché desidera che lui la tocchi, lui la carezza a parole, perché vuole sentirsi dire quanto è amato. Questo scambio implicito può creare equivoci. Ma basterebbe parlarsi per ricalibrar­lo e renderlo soddisface­nte per entrambi! Per ricevere carezze riflettiam­o sui riconoscim­enti che ci piace dare: sono quelli che a noi mancano, potremmo provare a chiederli alle persone più vicine».

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