Io (non) sono il mio lavoro
Non devi fare diventare la tua professione né una maschera né una gabbia. Come trovare l’equilibrio
Inutile negarlo: il lavoro occupa una posizione centrale nella vita. «La consapevolezza di assolvere una mansione socialmente utile è un ingrediente fondamentale per costruire l’idea che abbiamo di noi stessi», dice Rossella Panigatti, già dirigente e imprenditrice, oggi scrittrice e ricercatrice nel campo energetico spirituale. Nell’equilibrio dell’esistenza, spiega ancora l’autrice, svolgere una professione è molto più che l’esecuzione di un compito dietro remunerazione: è un potente indicatore di molte qualità personali e sociali. Non a caso, nel linguaggio comune la domanda “Chi sei?” si traduce spesso in “Cosa fai?” per iniziare a conoscere l’altro e capire come avviare un dialogo. Però, come tutte le cose importanti, anche (e soprattutto) il lavoro è fonte di grandi equivoci e inevitabili errori, come sottolineano la psicologa clinica Rossella Semplici e lo psichiatra e psicoterapeuta Quirino Quisi nel loro saggio Il lavoro tra identità personale e società (Paoline, 15 €). Sbaglia (e si stressa) chi s’identifica totalmente con la propria professione. Si crea una maschera, parlando di se stesso come di un ruolo vivente: “Sono una docente, un medico, un architetto”, anziché “Faccio la docente, il medico, l’architetto”. Ma sbaglia (e si stressa pure lui) anche, chi, al contrario, non trova nella sua mansione alcuna soddisfazione né motivo di crescita e al lavoro sembra in gabbia, ripetendo come un mantra: “Faccio la commessa, ma sono altro, moglie, sportiva, appassionata di cinema”.
SE TI IDENTIFICHI TROPPO
«Anche se tutti gli ultimi trend statistici parlano di un notevole peggioramento della qualità della vita nei posti di lavoro, buttarsi anima e corpo nella propria professione è ancora una prospettiva carica di status allettanti», spiega Luigi Pugliese, psicologo del lavoro e delle risorse umane a Fasano (BR). «Sotto un certo aspetto, quasi comoda poiché il lavoro (e la posizione sociale ed economica che ne consegue) è l’elemento più immediato e riconoscibile delle nostre capacità, dall’intelligenza alla motivazione fino alla forza di volontà e l’abilità strategica». Non a caso, il sociologo Joel M. Charon dice che l’identità è ciò che si pensa di essere e che si dimostra al mondo attraverso parole e azioni. Solo che, se il lavoro diventa l’unica aspirazione, la solita cartina tornasole della tua autostima, questa scelta alla lunga espone a gravi frustrazioni. Que-
sto percorso viene descritto bene dalla professoressa Elizabeth R. Thornton che ha pubblicato un libro sul tema, The Objective Leader: How to Leverage the Power of Seeing Things As They Are, dove racconta che il suo lavoro coincideva con la sua autovalutazione a tal punto che, quando ha iniziato a sperimentare i primi fallimenti, non è stata in grado di accorgersi di ciò che stava accadendo. Quando finalmente se ne è accorta, ha deciso di scrivere un libro. «Però, al di là di giornate e pensieri monotematici, tutti lavoro e nient’altro, avere un senso di sé così legato alla prestazione (“sono quello che faccio e produco”) è come consegnare la vita a un orologio esterno, pronto a esplodere: saranno gli eventi e gli altri a controllarti e a decidere chi sei veramente», riprende il dottor Pugliese. «Sei qualcuno se sei baciato dal successo, sei nessuno se i riconoscimenti non arrivano o spariscono. Il secondo rischio, poi, è che alla minima incertezza (ristrutturazione aziendale, cambio di strategia, crisi) ci si può trovare spogliati della propria identità e privi di risorse individuali (affetti, interessi, passioni, contatti ecc.) sui quali non si è mai investito prima. Quelle stesse energie, tra l’altro, che vengono dalla sfera privata e che ti rendono efficace quando lavori».
2
SE LO VIVI CON DISTACCO
All’altro capo dello squilibrio lavorativo c’è il distacco eccessivo: la nostra occupazione non ci coinvolge niente o quasi. «Insomma, viene ridotta a qualcosa che, grazie alla remunerazione, ti permette di concederti altre attività nelle quali trovi il senso della tua esistenza e la realizzazione di aspettative e progetti», dicono Semplici e Quisi. «Qualunque sia la motivazione – l’unica opportunità lavorativa avuta, dissenso ideologico con quello che fai, scarso feeling con l’ambiente, mancati riconoscimenti – il risultato è lo stesso. Alla fine, anche la tua vita extra-lavorativa ne risente. Già, perché se in un ambito
L’IDENTITÀ È CIÒ CHE SI PENSA DI ESSERE E CHE SI DIMOSTRA AL MONDO ATTRAVERSO FATTI E PAROLE.