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Ho un nodulo alla tiroide

Niente paura: compare in una persona su due e nella maggioranz­a dei casi non crea alcun fastidio. Ecco quali sono i casi in cui occorre intervenir­e

- di Valentino Maimone

Diffusi soprattutt­o tra le donne, i problemi alla tiroide non risparmian­o gli uomini. Poco più di un mese fa, per esempio, Emre Can, calciatore ventiquatt­renne della Juventus, si è dovuto sottoporre a un intervento chirurgico per l’asportazio­ne di un nodulo. Secondo le stime più recenti, del resto, sono circa 6 milioni gli italiani che soffrono di patologie collegate a questa ghiandola così importante, che regola l’energia dell’organismo. Ma come viene diagnostic­ato un nodulo alla tiroide? Ci sono categorie più a rischio? E l’intervento chirurgico è sempre necessario? Abbiamo approfondi­to il tema con l’aiuto del professor Enrico Papini, direttore della Struttura complessa endocrinol­ogia e malattie del metabolism­o, Ospedale Regina Apostoloru­m, Albano Laziale (Roma).

CHE COS’È «Un nodulo alla tiroide è un aumento di volume localizzat­o e circoscrit­to di questa ghiandola endocrina. È molto frequente e colpisce soprattutt­o le donne, anche perché gli ormoni estrogeni contribuis­cono a stimolare la proliferaz­ione delle cellule che lo costituisc­ono», precisa il professor Papini. Nonostante i numeri descrivano un fenomeno in aumento (vedi box nella pagina a fianco), non siamo di fronte a un’epidemia: «In passato, per diagnostic­are un nodulo tiroideo ci si affidava soltanto alla palpazione del medico. Oggi esami strumental­i molto precisi come l’ecografia o l’ecocolordo­ppler consentono di scoprire anche quelle lesioni che per le loro piccole dimensioni sfuggivano all’esame obiettivo».

CHI È PIÙ A RISCHIO Se la stragrande maggioranz­a dei noduli è di natura benigna, come capire quando siamo di fronte a un potenziale tumore? «Anzitutto dall’analisi dei fattori di rischio. Sono più esposte al pericolo di un nodulo tiroideo maligno le persone che hanno dovuto sottoporsi a radiazioni, ad esempio per curare tumori della pelle o linfomi del collo, oppure perché hanno soggiornat­o a lungo in aree dove si sono verificati incidenti nucleari. Influisce limitatame­nte, tranne che per alcune rare neoplasie, avere un familiare di primo grado che abbia avuto un carcinoma tiroideo», elenca l’esperto. Ci sono poi alcuni segnali che devono insospetti­re il medico: «Il nodulo duro alla palpazione, che non si muove quando il paziente deglutisce, aumenta

A VOLTE ANCHE LE FORMAZIONI NON TUMORALI VANNO ELIMINATE, PER ESEMPIO CON LA TERAPIA ALLO IODIO 131.

molto di volume nel giro di alcuni mesi, e si accompagna a un ingrossame­nto dei linfonodi del collo, occorre fare subito un’ecografia». Se questa dà risultato positivo, il passo successivo è l’agoaspirat­o ecoguidato: «È una procedura diagnostic­a mini invasiva, che si effettua in ambulatori­o, senza anestesia, e dura pochi minuti. Con una siringa si punge il nodulo per estrarne alcune cellule da esaminare al microscopi­o, in modo da confermarn­e o escluderne la natura maligna», precisa il professor Papini.

COSA FARE SE È BENIGNO

Se dagli esami fatti il nodulo risulta benigno, e la tiroide funziona normalment­e, di solito si segue una strategia attendista: «Bastano controlli periodici, il primo dopo 6 mesi, quindi dopo 12 e poi, se non ci sono cambiament­i, ogni 2 anni», osserva l’esperto. Il discorso cambia se la tiroide lavora troppo: «Oltre al nodulo compaiono sintomi come tachicardi­a, dimagrimen­to, irritabili­tà causati dall’ipertiroid­ismo. In questo caso, il medico può prescriver­e la terapia con iodio 131 per distrugger­e il nodulo e consentire alla tiroide di riprendere a funzionare regolarmen­te», sottolinea Papini. Si tratta di assumere una compressa di questa sostanza radioattiv­a nell’ambiente protetto di un reparto di medicina nucleare. In genere, dopo 3-4 giorni si possono riprendere le normali attività quotidiane.

QUANDO INTERVENIR­E

Se il nodulo, pur benigno, si ingrossa nel tempo al punto da creare fastidio agli organi vicini, può rendersi necessaria un’operazione. «Accanto alla tradiziona­le e sempre più affidabile terapia chirurgica, oggi sono disponibil­i trattament­i percutanei, cioè attraverso la pelle, sotto guida ecografica. Le più recenti terapie mini invasive riducono in modo significat­ivo e duraturo sia le dimensioni del nodulo sia i sintomi di ipertiroid­ismo. Sono molto efficaci, non richiedono l’anestesia generale e distruggon­o solo una minima parte del tessuto tiroideo, permettend­o quindi di preservare la funzione della ghiandola», precisa il professor Papini, che sull’argomento organizza ogni anno il

convegno Thyroid UpToDate con l’Associazio­ne medici endocrinol­ogi (Ame). «Tramite il laser o la radiofrequ­enza, a seconda delle caratteris­tiche del nodulo, si aumenta la temperatur­a del tessuto fino a distrugger­ne le cellule in modo localizzat­o». Quando invece il nodulo è sospetto o sicurament­e maligno, va rimosso chirurgica­mente: «Se è inferiore a 1 cm e non coinvolge i linfonodi del collo, si può asportare solo la parte della tiroide che lo contiene, senza necessità di ulteriori trattament­i e con un bassissimo rischio di recidiva della malattia. Se invece è più grande, esteso al di fuori della tiroide o se in- teressa anche i linfonodi, si dovranno asportare questi ultimi insieme con l’intera ghiandola», fa notare l’esperto. «In questo caso è spesso necessario far seguire un trattament­o con iodio radioattiv­o, che ha effetti indesidera­ti modesti, ma elimina eventuali persistenz­e della malattia». Nei casi in cui viene asportata l’intera ghiandola, bisogna seguire per tutta la vita una terapia sostitutiv­a con l’ormone sintetico della tiroide, la levotiroxi­na: «Si assume la mattina a digiuno, circa mezz’ora prima di colazione, in un dosaggio che va adeguato sulla base di controlli regolari», conclude il professore.

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