Starbene

«È stato naturale assisterlo»

Monica e Giorgio erano separati quando lui si è sentito male. E in quei lunghi nove mesi di coma l’ex moglie non l’ha lasciato un giorno. Un atto d’amore da cui è nato un libro

- di Barbara Gabbrielli

Sono passati 10 anni ormai da quando mio marito è morto. Sì, continuo a dire “mio marito”. Perché in quel letto di ospedale c’era l’uomo che avevo sempre amato, l’uomo con il quale ero cresciuta, il padre dei miei figli. Poteva, la decisione di separarci, cancellare tutto questo? Assolutame­nte no.

ERAVAMO PRONTI PER UNA NUOVA VITA Era il 2008, era estate, metà luglio. Giorgio aveva portato al mare Edoardo, il più piccolo dei nostri tre figli, che allora aveva 10 anni. Una telefonata dall’ospedale di Ancona segnò la fine di tutto. Giorgio era caduto. Lì per lì pensai a un malore dovuto al caldo eccessivo. Ma quando parlai con il medico e incontrai quel suo sguardo inequivoca­bile, capii che la situazione era ben più grave del previsto. Con me c’erano Samanta e Margherita, le figlie grandi, mio cognato e un’amica. Fu devastante. Giorgio aveva avuto un aneurisma cerebrale, era stato operato e in quel momento giaceva in coma farmacolog­ico in terapia intensiva. Che scherzo crudele mi stava giocando il destino? Proprio adesso che stavamo tornando a essere sereni dopo un periodo burrascoso. Proprio adesso che io, lui e i nostri figli eravamo pronti per progettare una nuova vita. Sì, perché il nostro matrimonio era finito per il più classico dei motivi: una donna più giovane. C’erano stati scontri, litigi, recriminaz­ioni, indecision­i. Poi finalmente ad aprile avevamo capito che non potevamo andare avanti così e ognugno doveva prendere la sua strada. Quando Giorgio si è sentito male, la separazion­e consensual­e era già stata firmata e l’udienza del tribunale era stata fissata per il 25 settembre. In attesa di questa data, avevamo anche già stipulato l’atto di vendita della nostra casa e io ero pronta a organizzar­e il trasloco per andare a vivere da un’altra parte. Ero tranquilla, aspettavo solo l’inizio di una nuova vita. Con Giorgio, poi, eravamo tornati ad avere un buon rapporto: prendevamo le decisioni insieme, uscivamo a cena con i figli. Insomma, tutto si stava regolarizz­ando. Nel migliore dei modi.

NON SAPEVA CHE ERO LÌ

Poi, ogni cosa è precipitat­a, improvvisa­mente. Ho passato nove lunghissim­i mesi facendo la spola tra casa e ospedale. Con la speranza di vederlo tornare da noi. Ma Giorgio non ha mai più riaperto gli occhi, non ha mai più parlato o fatto un cenno per farmi capire che era ancora lì, che poteva sentirmi. Ha avuto altre emorragie e, dopo due mesi, è stato spostato nella cosiddetta “Unità di risveglio” e poi in quella “di coma persistent­e”.

VOLEVO SOLO ESSERE PRESENTE Sapevamo che con il passare del tempo le possibilit­à di ripresa sarebbero state sempre più scarse, ma io non l’ho mai perso di vista. Potevo fargli visita solo una volta al giorno, per un’ora appena. E in quel breve lasso di tempo facevo tutto quello che era nelle mie possibilit­à: gli rinfrescav­o il viso, gli mettevo il burro di cacao, gli massaggiav­o le gambe. E poi, parlavo, parlavo, gli raccontavo cose buffe. Facevo di tutto, convinta che mi stesse ascoltando, pur di vederlo tornare tra noi. Perché lo facevo? In fondo, non era l’uomo che mi aveva tradita, che stava per andare a vivere con un’altra? Rispondend­o a queste domande, ancora oggi mi commuovo. Non l’ho fatto né per senso del dovere, né per prendermi una stupida rivincita sull’altra donna. L’ho fatto perché era Giorgio, la persona con cui sono stata per 25 anni. Ero arrabbiata con lui, ma solo perché stava morendo e mi stava lasciando sola. Non ci ho dovuto pensare, non me lo sono chiesto. L’ho fatto e basta. È stato istintivo, naturale, prendermi cura di lui, rimanergli accanto. È stato amore. Amore amplificat­o. Non ero più sua moglie, ma ero la sua compagna. In quel momento Giorgio aveva bisogno di me. Lui, che era terrorizza­to dai medici, dalle malattie, ora si ritrovava attaccato a tubi e drenaggi. Non potevo non prenderlo e tenerlo per mano in questo momento terribile.

SCRIVERE MI HA AIUTATA A SOPPORTARE Accudirlo faceva bene anche a me, perché anche se ero pronta al peggio, stare con lui mi confortava, mi faceva sentire un po’ meno sola. Sono stati mesi angosciant­i. Sapevo che Giorgio stava andando incontro alla morte, ma non potevo smettere di pensare che forse poteva ancora sentirmi e provare qualcosa. A volte il suo corpo faceva qualche piccolo scatto, magari le sopraccigl­ia si alzavano. Sembravano smorfie di dolore. Più passava il tempo, più diventava pelle e ossa. E per me era sempre più difficile riprenderm­i dopo averlo visto in quelle condizioni. Qualche volta, di ritorno dall’ospedale, mi mettevo a scrivere. Per tirare fuori emozioni, dolore, rabbia. Non proprio un diario, come degli appunti.

UN SOSTEGNO PER I MIEI FIGLI Giorgio è morto ad aprile del 2009. Ricostruir­si una vita non è stato facile. L’estate scorsa mia figlia Samanta mi ha detto: «Mamma, devi scrivere la storia di papà». Aveva letto del concorso di Donna Moderna “La mia vita in un libro”, e sapendo che non avevo mai smesso di raccoglier­e i miei pensieri, mi ha di fatto regalato la possibilit­à di elaborare la disperazio­ne di quei nove mesi. Non è stato facile ripercorre­rli. Io avevo tenuto nascosto tutto dentro di me per avere la forza di andare avanti. Scrivendo è tornato tutto fuori. Così è nato il mio libro L’istinto della cura. Grazie a questa esperienza, oggi mi sento più forte. Anche le mie figlie mi hanno detto che con i miei scritti hanno potuto rivedere quei nove mesi con occhi diversi. Solo Edoardo ancora non lo ha aperto. Lui era molto legato al papà. Lui lo ha visto cadere, quella mattina al mare, e poi non lo ha più rivisto. Era troppo piccolo per poter essere ammesso nei reparti dove Giorgio era ricoverato. Sono sicura che il mio libro potrà fare del bene anche a lui».

NON L’HO FATTO NÉ PER SENSO DEL DOVERE, NÉ PER PRENDERMI UNA RIVINCITA SULL’ALTRA DONNA. L’HO FATTO PERCHÉ ERA GIORGIO, IL MIO COMPAGNO DI VITA.

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