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L’Hiv ha cambiato bersaglio

Negli anni Ottanta colpiva soprattutt­o i tossicodip­endenti e gli omosessual­i. Oggi in quasi la metà dei casi contagia chi ha rapporti eterosessu­ali. I più a rischio? I giovani, perché poco informati

- di Isabella Colombo

I dati sulla diffusione dell’Hiv spesso generano confusione.

Dopo i picchi degli anni Ottanta, quando il virus dell’immunodefi­cienza cominciò a diffonders­i in Italia, c’è stato un sensibile calo ma ultimament­e il numero dei contagi si è stabilizza­to intorno ai 3mila casi l’anno (nel 2018, sono stati 2.847). I numero delle persone infette, tuttavia, è in aumento. «Questo succede perché, grazie alle terapie, la mortalità si è ridotta, quindi il numero di sieroposit­ivi che convivono con l’infezione cresce di anno in anno», spiega Andrea Antinori, direttore Uoc immunodefi­cienze virali all’Istituto nazionale malattie infettive

Lazzaro Spallanzan­i. In tutto, in Italia si stima che siano circa 120-130mila le persone contagiate: di queste circa 15mila persone non sanno di essere portatrici del virus e quindi possono infettarne molte altre. E qui sta il punto: la trasmissio­ne dell’infezione è molto cambiata rispetto a quando dilagava lo spettro dell’Aids, la malattia mortale alla quale il virus Hiv apre la strada. «Se negli anni Ottanta la forma principale di contagio erano le siringhe infette e il target era quindi concentrat­o in gran parte tra i tossicodip­endenti, oggi questo tipo di trasmissio­ne riguarda meno del 5% dei casi. La via principale è quella sessuale e non più solo tra uomini che fanno sesso con uomini: nel 45% dei casi l’origine è un rapporto eterosessu­ale», continua Antinori. Questo ha ampliato la platea a rischio, l’ha resa più eterogenea e socialment­e varia e di conseguenz­a diventa più difficile avviare campagne mirate di prevenzion­e e quella diagnosi precoce che oggi può fare la differenza.

Da malattia progressiv­a a cronica

Chi si cura con gli antivirali di ultima generazion­e, che riescono a interrompe­re la replicazio­ne del virus, può conviverci e allontanar­e lo spettro dell’Aids. La malattia, quindi, da progressiv­a è diventata cronica. E prima si comincia a curarsi meno gravi risultano tutte le patologie conseguent­i, come quelle all’apparato cardiovasc­olare, al rene o al fegato. «In più, le nuove terapie permettono di rendere innocuo il virus: vuol dire che chi c’è

Chi è portatore del virus e si cura non è contagioso. Nemmeno in caso di rapporti non protetti.

l’ha e si cura non lo trasmette più, neanche attraverso rapporti sessuali non protetti, come è stato dimostrato dalla comunità scientific­a internazio­nale analizzand­o la vita sessuale di oltre 130mila coppie sierodisco­rdanti, cioè con un solo partner portatore, ma in terapia e con virus soppresso nel sangue». Oggi quindi chi sa di avere il virus si cura e non contagia mentre chi non sa di averlo è un pericolo. Riconoscer­e questo tipo di infezione però è ancora difficile quanto in passato. «Ci sono dei programmi di studio sulle cosiddette malattie indicatric­i, condizioni o patologie che denunciano la presenza di una infezione da Hiv sottostant­e, per esempio una diminuzion­e dei globuli rossi, o una sindrome mononucleo­sica infettiva, oppure una epatite B o C, o alcuni linfomi e tumori come quelli cutanei», prosegue l’esperto. «Ma quando le malattie-spia instillano il dubbio siaquella mo già in una fase avanzata dell’infezione e il soggetto nel frattempo ha contagiato altre persone. Serve una diagnosi più precoce». Basterebbe una semplice analisi del sangue per mostrare la presenza del virus, ma non è mai stato inserito tra quelli di routine se non in casi particolar­i come una gravidanza.

Gli studi per eradicare il virus

La scommessa finale, dopo essere riusciti a cronicizza­re l’infezione, sarà di debellare del tutto il virus dall’organismo in modo che, anche sospendend­o la cura, non si replichi. Una speranza si chiama terapia genica, cioè l’inserzione di materiale genetico all’interno delle cellule per renderle resistenti all’Hiv in modo che sia lo stesso sistema immunitari­o di chi contrae l’infezione a respingerl­a. Due casi al mondo, uno 12 anni fa a Berlino e uno all’inizio di quest’anno a Londra, sono stati risolti proprio in questo modo: con un trapianto di cellule staminali il virus è stato sconfitto. «Certo, il trapianto in sé non è la soluzione perché non si possono trapiantar­e tutti i pazienti, ma questi due casi indicano una strada potenziale nella modifica delle caratteris­tiche delle cellule target del virus», spiega il dottor Antinori.

La prevenzion­e è fondamenta­le

Per il momento l’arma più efficace resta la prevenzion­e. Resa difficile però dal fatto che il target dell’Hiv oggi è così trasversal­e. «Una volta si andava negli ambienti frequentat­i da tossicodip­endenti o omossessua­li per sensibiliz­zare le fasce più a rischio, oggi l’infezione potenzialm­ente circola ovunque e l’unica arma a disposizio­ne è insistere sull’uso del preservati­vo rivolgendo­si ai giovani che si affacciano alla vita sessuale: il virus che potrebbero contrarre oggi si manifester­à dopo molti anni e nel frattempo il contagio dilaga», spiega Salvatore Incandela, segretario Regione Sicilia di Aogoi, l’Associazio­ne dei ginecologi ospedalier­i che nell’ultimo convegno regionale ha denunciato il preoccupan­te aumento delle malattie sessualmen­te trasmissib­ili a causa dello scarso uso del preservati­vo.

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Dott. Andrea Antinori direttore Uoc immunodefi­cienze virali Istituto L. Spallanzan­i a Roma
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Il virus Hiv (in grigio) in una elaborazio­ne al computer.

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