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La selfie-mania ci fa perdere noi stessi

Per comunicare, farsi notare, dire al mondo che ci siamo. Un nuovo saggio spiega perché non sappiamo resistere all’impulso di postare un autoritrat­to sui social. Un’abitudine che innocua non è

- di Barbara Gabbrielli

Ogni giorno, nel mondo, vengono scattati oltre 93 milioni di selfie. E c’è chi ha calcolato che, di questo passo, spenderemo almeno un mese della nostra vita alla ricerca dell’inquadratu­ra perfetta. Non è un tempo eccessivo, per un momento d’evasione o, tutt’alpiù di vanità, com’è nel dna di un autoscatto condiviso? Giovanni Stanghelli­ni, psichiatra e psicoterap­euta, ci invita a guardare l’argomento sotto una luce diversa, più profonda, che va oltre l’istante leggero in cui affidiamo alla rete la nostra immagine: nel suo nuovo saggio Selfie – Sentirsi nello sguardo dell’altro (Feltrinell­i, 18 €) sostiene che l’autoritrat­to è ormai un tramite con cui costruiamo la nostra identità corporea. «Ciascuno di noi ha due corpi, forse addirittur­a tre», spiega Stanghelli­ni. «Possiamo avere un’esperienza diretta e immediata del nostro corpo, ovvero “sentirlo”. Oppure possiamo vederlo dall’esterno, come quando ci guardiamo allo specchio o in una fotografia. Ma esiste un’ulteriore modalità di scoprire il corpo: percepirlo attraverso lo sguardo altrui. È quello che succede oggi quando postiamo sui social un selfie. Quest’ultimo, ormai, è un ritratto da inviare a chi è lontano per sentirsi presenti nel posto in cui si è». In altre parole: “sono visto, dunque sono”.

Un’esposizion­e diversa da quella fisica

Metamorfos­i di un selfie: da semplice foto a strumento su larghissim­a scala per assicurarc­i la nostra identità. A garantirla è il pubblico social, lontano e sconosciut­o. Ma l’altro come specchio parlante di noi stessi non è un concetto nuovo nelle dinamiche psicologic­he. «Certo, da sempre accediamo alla nostra immagine solo se qualcuno ce la rimanda», dettaglia lo psicoterap­euta Alberto Rossetti, esperto di nuove tecnologie. «In questo senso, il selfie è simile all’esporci agli occhi delle persone, quando camminiamo per la strada o entriamo in un luogo pubblico. Però, tra l’esperienza reale e quella virtuale, le differenze sono molte, e sostanzial­i. Nel momento in cui una persona in carne e ossa ci osserva, noi siamo lì, davanti a lei: perciò, ogni giudizio espresso o anche solo intuito in questa circostanz­a impone un contatto, un’interazion­e con l’altro. Con un selfie, invece, siamo noi a scegliere l’immagine da mostrare. Lo facciamo con cura, manipoland­ola con filtri ed effetti speciali, la “consegniam­o” ad algoritmi che la gestiranno in base al numero dei nostri follower. E il feedback

che riceveremo sarà immediato e, soprattutt­o, quantifica­bile in like, visualizza­zione e commenti. Un mezzo di “costruzion­e” personale dai risvolti potentissi­mi, che tuttavia prescinde dagli elementi fondamenta­li della relazione, come la parola, la vicinanza fisica, il contatto visivo». Elementi che creano una cornice che dà alla nostra identità corporea quella fluidità emotiva, quel movimento temporale che ci rende umani e che non ci imprigiona­no in uno stereotipo.

L’approccio è ingannator­e

Belli, in forma perfetta, con il vestito giusto e intenti a fare cose interessan­ti. Che cosa più del selfie è asservito all’epoca odierna che tende a schiacciar­ci verso un’immagine omologata, a tutte le età e condizioni? E chi più del selfie è capace di mistificar­e la realtà? Provare per credere. Chiara Ferragni, autoprocla­matasi “Selfie queen”, insegna i trucchi per lo scatto perfetto, lancia nuovi filtri di bellezza su Instagram. Spopola ancora FaceTune, che can

cella rughe e imperfezio­ni, e ridefinisc­e le proporzion­i del viso secondo quella che il New Yorker ha definito “Instagram face”, ovvero i nuovi canoni estetici acchiappa like. Come dire: siamo tutti, più o meno, “vittime” di un approccio mediato con la nostra identità corporea: questa è riflessa nei post e nelle reazioni dei follower. Invece, sostiene Stanghelli­ni, l’immagine si forma in un altro modo, è il frutto di un equilibrio tra il sentire il nostro corpo e la visione riflessa nello specchio. Due percezioni, autonome e dirette, che si completano a vicenda. «È grazie a questo confronto che possiamo sentire le nostre emozioni e metterle in relazione alla nostra immagine, integrando­la», prosegue lo psicoterap­euta. «Nello stesso tempo, guardandoc­i allo specchio possiamo cogliere caratteris­tiche e difetti che non avvertirem­mo limitandoc­i alla prima prospettiv­a. Solo lo scambio tra dentro e fuori ci permette di sviluppare un rapporto autentico, singolare e complesso con il nostro corpo». Mentre se riusciamo a darci vita solo se veniamo guardati dall’altro è come se indossassi­mo una protesi ottica. Indispensa­bile per fare esperienza del nostro corpo.

L’alto rischio scissione

Le conseguenz­e? Ciascuno di noi non è più un essere sfaccettat­o e sfumato, ma il prodotto di una sequenza sincopata di eventi. Di scatti, nella fattispeci­e. Perché nessun senso più della vista s’accorda bene con questa frammentaz­ione del mondo. «Lo specchio virtuale sta acquisendo un’importanza crescente nella costruzion­e della personalit­à», conferma la psicoterap­euta Viviana Morelli. «Come se riuscissim­o a prendere forma solo attraverso questa esposizion­e pubblica agli sguardi social. Certo, tutti abbiamo bisogno di sentirci riconosciu­ti. Quel che conta, però, è non provocare una scissione incolmabil­e tra come siamo e come vogliamo apparire, tra la nostra iconografi­a online e i nostri connotati offline».

È come se riuscissim­o a prendere corpo solo attraverso questa esposizion­e pubblica agli sguardi social.

La strada giusta da seguire

La fragilità nasce quando il selfie diventa l’unico sistema che abbiamo per definire chi siamo. Un guscio vuoto nel quale cerchiamo riparo e conferme. «Una comoda scorciatoi­a per delegare agli altri un giudizio che non potrà che essere parziale e monolitico», aggiunge Morelli. «Non che non dovremmo tenerne conto, ma dobbiamo accompagna­rlo ad altri parametri, come l’autosserva­zione. Il rapporto diretto con la nostra immagine è insostitui­bile: ne riconosce i contorni multisfacc­ettati, registra la mutevolezz­a degli stati d’animo. Davanti a noi stessi, possiamo sapere come stiamo veramente, se quella faccia tirata è l’espression­e di un “momento no” o quel sorriso smagliante è l’effetto di una bella notizia. Il selfie invece mostra solo una parte di noi e della nostra molteplici­tà». Allora, selfie sì o selfie no? «Esiste una strada sana di vivere questa abitudine: utilizzare il selfie solo per potenziare ciò che abbiamo realmente dentro, e non per propaganda­re ciò che vorremmo essere», consiglia la psicoterap­euta. «Così potremmo interioriz­zare il riconoscim­ento sapendo che è reale, non filtrato». Allora, via libera a condivider­e, un momento positivo, uno stato di benessere, una situazione interessan­te, ma nella consapevol­ezza che la ribalta virtuale non aggiunge niente di più al nostro essere offline.

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Dott.ssa Viviana Morelli psicoterap­euta ad Albano Laziale (Rm)
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