Speciale #iorestoacasa
Derubati di colpo dal nostro tran-tran quotidiano e da qualsiasi certezza per il futuro, siamo andati in crisi collettiva. Dagli psicologi, però, arrivano diverse iniziative di aiuto gratuito
Dall’emergenza sanitaria all’emergenza psicologica. In un momento di pericolo globale, scenari inquietanti, radicali cambiamenti di abitudini, inevitabilmente si fa largo lo stress.
Avanza così velocemente tra la popolazione, che anche l’Oms lo ha preso in considerazione in un vademecum ad hoc (iss.it). «Persone costrette in casa, vita a ranghi ridotti e una minaccia pandemica dai confini incerti: nell’era del Covid-19, è normale che si crei un allarme trasversale di queste proporzioni», commenta Laura Parolin, presidente dell’Ordine degli psicologi della Lombardia. «Si declina in reazioni diverse, per individuo ed età, ma sempre con un comune denominatore: l’attivazione poderosa di sensazioni negative. In questo mondo “disturbato”, ci stanno tutti, dall’anziano che ha paura di morire all’adolescente distaccato da amici e divertimenti alla madre in smartworking che insieme deve lavorare e accudire i figli. Le richieste d’aiuto, perciò, sono tante, ed è proprio per fronteggiare il disagio collettivo che la categoria degli psicologi si è organizzata in massa, passando dallo studio alla Rete. Infatti, in tutt’Italia sono partite linee d’ascolto e intervento online (vedi box a pag. 10), con proposte di diverso tipo».
La mente è andata in tilt
Il primo report sulla domanda di supporto psicologico è emblematico: a una settimana dalla pubblicazione, l’elenco dei 4.794 psicologi laziali disponibili a operare a distanza è stato consultato da oltre 11mila persone, mentre il video che promuove l’iniziativa ha registrato 125mila visualizzazioni, riferisce Federico Conte, presidente dell’Ordine degli psicologi del Lazio. L’Sos inviato dagli utenti si concretizza in due domande: “Che sta succedendo?”; “Come possiamo resistere chiusi in casa?”. «Stiamo vivendo un momento di privazione dell’autonomia, della sicurezza e del controllo della nostra vita, insieme all’impossibilità di crearci nuovi obiettivi e di provare piacere», spiega Antonio Pipio, health coach esperto in neuroscienze, con un passato nei reparti di emergenza delle Asl romagnole e fondatore di Health Coaching Academy. «Con risvolti psicologici ostili e concatenati. La paura, che ha la funzione di proteggerci, ora è inefficace: non è basata su qualcosa di oggettivo – il virus è invisibile – e si trasforma in ansia; l’ansia, che è una preoccupazione
L’isolamento priva dello strumento-principe per resistere alle minacce: la vicinanza fisica.
per il futuro, muta in angoscia perché nessuno può sapere se ci ammaleremo o cosa ci riserverà l’avvenire. E i nostri giorni sono, purtroppo, pervasi da un’inquietudine insaziabile». Poi, c’è il capitolo della frustrazione: oppressi e compressi tra le mure domestiche, non possiamo soddisfare bisogni primordiali, muoversi o avere spazi di privacy. «Questo mix di turbamenti e smarrimenti, unito al surplus d’informazioni che ci arrivano a getto continuo, porta l’organismo a produrre così tanti ormoni disfunzionali, che la nostra capacità di poter pensare e agire sul presente e sul futuro è depotenziata», aggiunge l’esperto. Il risultato? Rabbia, rancore, tristezza sono all’ordine del giorno. Tutti meccanismi d’allerta che ci dà il cervello per dirci che non stiamo soddisfacendo le sue richieste di libertà, movimento, relazione, amore, varietà». E da qui, è un attimo diventare vittime dello stress da clausura.
Soli, e tanto meno forti
È il distanziamento sociale che rende snervante stare dentro a questa “gabbia” imposta dalla pandemia. «L’i
solamento ci ha privato del nostro strumento-principe per resistere alle minacce, la vicinanza fisica» spiega il professor Fabio Sbattella, psicologo dell’emergenza all’università Cattolica di Milano. «Da sempre, che arrivino bombe o tsunami, le persone si stringono insieme e fanno scudo con il proprio corpo per proteggere i figli. Mentre adesso, ci troviamo in una condizione innaturale, e con le armi spuntate». Spiazzati contro la malattia, resistenti ad accettare una vita sospesa, intrappolati nelle emozioni, incapaci di riempire il “vuoto” →
→ giornaliero. «Di fatto, c’è da fare solo una cosa: imparare a stare nel qui e ora, agendo su due piani», esordisce Donatella De Marinis, psicoterapeuta e vicepresidente del Centro studi terapia della Gestalt. «Il primo: accogliere ciò che sentiamo, altrimenti nervosismo, panico, depressione ci sovrasteranno. Siamo arrabbiati per gli “arresti domiciliari”? Stiamo dentro a questa stimolazione per qualche minuto e riconnettiamoci con i nostri ricordi in situazioni analoghe. Dalla memoria, arriva la soluzione, succede sempre così». Negare la sofferenza, invece, crea solo altro malessere: deriva dall’illusione che esista un benessere tout-court, senza un prezzo da pagare. Questa sì che è una corsa sfiancante, e tanto stressante.
Quel vuoto da attraversare
Per dirla con gli esperti, la tenuta psicologica da Coronavirus si costruisce con autenticità, visceralità, pragmatismo. «La quarantena, prima o poi finirà, ma nel frattempo, siamo chiamati a organizzare dentro di noi una struttura mentale in cui sentirci contenuti», prosegue De Marinis. «Orari, regole, riti scelti da noi, che fanno da guida e danno ritmo alle nostre giornate barricati in casa. E che non ci permettono di barcamenarci tra la sedia e la poltrona in attesa di andare a letto». Diversamente, ci perdiamo nell’inutilità della vita. «Le testimonianze di astronauti lanciati nello spazio ed esploratori di deserti dicono che l’isolamento tende a dilatare il tempo, perciò è basilare darsi un’agenda interna, altrimenti la mente s’offusca, sbanda», rinforza Sbattella. «Una cura efficace è: distinguere i giorni della settimana, differenziare il giorno dalla sera e le relative azioni. Tipo, ci si alza al mattino, ci si veste, si mangia a orari regolari, si dorme di notte». L’ordine interiore, poi, ha un ulteriore effetto ansiolitico: c’insegna a dare dignità a ogni gesto, fosse solo fare colazione. E a non avere bisogno di agire, agire per sentirsi vivi. «Anzi, cerchiamo di prendere le distanze dall’ossessione di passare da un’attività all’altra, nel tentativo di riprodurre in miniatura domestica la nostra vita ordinaria», dice Fabio Galimberti, psicoanalista. «Quella che stiamo vivendo è, paradossalmente, una fase eccezionale. Anche se in modo traumatico, ha liberato il tempo dai doveri, fatto inedito per noi. Bene, invece di tentare di ricondurre il tempo a schemi già noti, proviamo a crearci un’altra dimensione, più intima. Ad accettare il vuoto. Per scoprire nei nostri pensieri sapori, odori nuovi che ci possano riconciliare con l’esistenza. Penso al lavoro. Spesso, viene vissuto come una condanna, ma ora che ne siamo lontani ci accorgiamo dei lati positivi: al netto della fatica, è una parte della nostra identità, ci dà scambi sociali, attimi di divertimento. E quando i ritmi riprenderanno come prima, se conserviamo memoria di questi giorni, sono tutti spunti da re-iniettare nella nostra esistenza». Per ora, calma e sangue freddo: la quarantena non è tempo perso, ma tempo ritrovato.
Bisogna accogliere ciò che sentiamo, altrimenti ansia e panico ci sovrasteranno.
“Perché non rimetti le cose al loro posto?” “E tu puoi abbassare la musica?”
“Come non sopporto quando non mi rispondi…”. Frasi come queste, in tempi di clausura forzata, sono all’ordine del giorno. Privati della libertà e costretti in un ambiente chiuso per un tempo indeterminato, tutti gli esseri viventi entrano in sofferenza. E la recente impennata di richieste di divorzio post quarantena in Cina ci dimostra che la reclusione di coppia può essere perfino più difficile di quella da soli. In effetti, nella nostra vita di relazione non ci è mai capitato di essere costretti fra quattro mura con la nostra dolce metà e la percezione dello spazio di colpo si restringe. Come Alice nel Paese delle Meraviglie, all’improvviso ci sembra di esplodere in un ambiente minuscolo e l’altro da partner diventa una minaccia al nostro spazio individuale. Abbiamo chiesto la consulenza degli esperti per capire come riuscire a cambiare prospettiva, schiacciare il bottone “reset” e ripartire con il piede giusto.
Preservare il nido
«Il luogo in cui viviamo non è solo una superficie misurabile in metri quadrati», precisa Bruno Intreccialagli, psichiatra e responsabile della Sitcc, Società italiana di terapia comportamentale e cognitiva a Roma. «È prima di tutto uno spazio emotivo, il luogo dell’incontro con l’altro. È il palco in cui mettiamo in scena la relazione, che ha un obiettivo congiunto: stare insieme integrando le reciproche competenze e rispettando le differenze. In condizioni normali, è facile evitare la saturazione degli scambi: ci si vede solo alla sera e si può ricavare tempo per sé (andare in palestra, prendere un aperitivo con gli amici, coltivare un hobby da soli). Ora è necessario imparare a modulare la distanza per preservare l’equilibrio della coppia».
Ridefinire il territorio
«Piccola o grande, non è la casa a definire lo spazio di una relazione», prosegue Intreccialagli, «ma il territorio emotivo in cui ci muoviamo insieme all’altro. È una buona notizia, perché è in nostro potere aprire le finestre sul modo di stare in coppia e fare →
Vicini ma lontanissimi: la quarantena sta mettendo alle corde anche le unioni più collaudate. Ecco come sopravvivere al periodo dei “domiciliari”
→ entrare aria fresca». Si tratta di girare l’interruttore giusto. «Immaginiamo di avere di fronte a noi la piantina della nostra casa e assegniamo a entrambi un luogo dove l’altro limita la propria presenza», avverte Patrizia Vaccaro, psicoterapeuta e responsabile dello studio San Giorgio a Milano. «Non è necessario avere una stanza tutta per sé: può essere anche un tavolino, o un angolo del divano dove poter lasciare le proprie cose (libri, telefono, device digitali, attrezzi per allenarsi). Quello diventa uno spazio off limits. La coppia si impegna reciprocamente a non fare invasioni di campo e rispetta i confini». Sarebbe utile cambiare anche il nostro modo di comunicare. «È importante tornare a un’ecologia della parola. Proprio perché abbiamo l’altro continuamente intorno, non sommergiamolo di chiacchiere. Anche saturare lo spazio sonoro è un modo aggressivo di stare in relazione», riprende Intreccialagli. «Perciò, parliamo meno e in modo più autentico. E impariamo anche che condividere il silenzio è un modo di stare insieme. Infine, possiamo disegnare mentalmente uno spazio comune che rinforza la relazione. Fare qualcosa insieme (guardare un film, ascoltare musica, commentare le news) sono attività che ci possono unire. E questo vale anche se vogliamo coinvolgere il corpo: condividere un’attività percettivo-motoria (come riparare insieme un mobiletto, pulire la casa, allenarsi in due o risistemare la libreria) gratifica la coppia».
Per abbassare la pressione di coppia, aumenta la fiducia, non il controllo.
Rispettare la privacy
Non è il momento di farsi venire attacchi di gelosia: bisogna mollare gli ormeggi. «Continuare a chiedere all’altro con chi sta chattando, asfissiarlo di domande o, peggio ancora, cercare di spiare il suo cellulare, non può che far degenerare la situazione», avverte Patrizia Vaccaro. «La pulsione di controllo è una reazione normale allo stress», aggiunge Bruno Intreccialagli. «Tuttavia fa sentire l’altro ancora più prigioniero della situazione. Per non togliere ossigeno alla coppia, è il momento di aumentare la fiducia, non le misure restrittive. Invece di concentrarvi sul partner, spostate l’attenzione su voi stessi e su quello che vi gratifica».
Accettare il conflitto
Vedersi 24 ore al giorno è un potente detonatore di conflittualità: ne abbiamo assai spesso un esempio lampante durante le vacanze estive. «Liti e diverbi in questo momento sono normali: non facciamone un dramma», rassicura Patrizia Vaccaro. «Dopo una litigata furibonda, invece di tenere musi lunghi, impariamo a perdonarci e approfittiamo del contatto fisico che possiamo avere con il partner. Un abbraccio o una carezza valgono più di mille parole».