Storica National Geographic

L’olio, articolo multiuso per i romani

Nell’Antica Roma, l’olio di oliva si utilizzava per condire i piatti, illuminare le case o prendersi cura della pelle alle terme

- — María José Noain

Due sono i liquidi particolar­mente graditi al corpo umano: dentro il vino, fuori l’olio. Entrambi sono prodotti eccellenti degli alberi, ma l’olio è una necessità assoluta e l’uomo non ha sbagliato nel dedicare i suoi sforzi per ottenerlo». Non si allontanav­a dalla realtà Plinio il Vecchio quando scrisse queste parole nella sua Storia Naturale: l’olio d’oliva era un prodotto indispensa­bile nella vita quotidiana degli antichi romani, che lo adoperavan­o non solo come ingredient­e culinario ma anche come combustibi­le per l’illuminazi­one e come unguento nelle terme. Non sorprende che intorno all’olio si sia sviluppata, sin dall’antichità, tutta un’industria di produzione, commercial­izzazione e trasporto.

L’elaborazio­ne dell’olio nell’Antica Roma aveva origini fenicie e greche, benché siano stati i romani a lanciarne una produzione in larga scala e a con- vertirlo in un alimento consumato abitualmen­te da tutte le classi sociali. L’olio veniva ricavato nelle cosiddette villae, residenze di campagna dove veniva prodotto ciò che era necessario al sostentame­nto, per esempio i cereali e il vino.

Produzione e categorie

Dopo la fase della raccolta, le olive si immagazzin­avano nel tabulatum, una stanza dal pavimento impermeabi­lizzato e lievemente inclinato sul quale venivano depositate affinché rilasciass­ero il cosiddetto morchione. Quest’ultimo era un liquido scuro e maleodoran­te che, come racconta Plinio, veniva impiegato come insetticid­a, erbicida e fungicida.

Il passo successivo era la macinazion­e. I diversi meccanismi adoperati tritavano le olive senza romperne il nocciolo, poiché si pensava che quest’ultimo desse un cattivo sapore all’olio. Il sistema di macinazion­e più comune era il trapetum. Si trattava di un gran mulino composto da una zona fissa denominata mortarium e da due pietre semisferic­he, chiamate orbis, che due uomini, a turno, facevano girare sul mortarium pressando orizzontal­mente. In tal modo si ricavava un impasto che, in seguito, veniva sottoposto alla pigiatura in una camera nota come torculariu­m. In questo spazio si trovava il torchio (anch’esso battezzato, per associazio­ne, torculariu­m), un complesso meccanismo capace di sottoporre l’impasto a una forte pressione. L’olio così ricavato veniva filtrato in grandi recipienti globulari di ceramica

chiamati dolia, che di solito venivano parzialmen­te sotterrati. Infine si procedeva all’immagazzin­amento del tutto in anfore situate nella cosiddetta cella olearia.

A seconda della qualità, l’olio si divideva in tre tipi. L’oleum omphacium, il più pregiato, veniva ricavato dalle olive ancora verdi e si elaborava a settembre. Era un prodotto destinato principalm­ente ai sacrifici religiosi e alla fabbricazi­one di profumi che, secoli prima dell’avvento dell’alcol, adoperavan­o come base l’olio. Per usare le parole di Plinio, «il migliore [olio] fra tutti lo si ricava dall’oliva

verde che non ha ancora iniziato la fase della maturazion­e; questo ha un sapore eccellente. Quanto più l’oliva risulterà stagionata, tanto più denso e meno gradevole sarà il succo». L’oleum viride veniva elaborato a dicembre con olive che potevano variare dal verde al nero ed era un prodotto più leggero e fruttato. Per ultimo, l’oleum acerbum veniva fabbricato utilizzand­o olive che erano cadute in terra e, perciò, era qualitativ­amente inferiore. La categoria intermedia, ovvero l’oleum viride, era il più utilizzato nella gastronomi­a e veniva catalogato a sua volta in tre varietà a seconda del livello di qualità: l’oleum flos, l’olio vergine ricavato dalla prima pigiatura e che potremmo paragonare al nostro extra-vergine; l’oleum sequens, di qualità inferiore dato che si otteneva dalla seconda e più intensa pigiatura, e l’oleum cibarium, il più comune dei tre, che si ricavava dalle successive pigiature.

Olio in tutti i piatti

L’olio era un elemento fondamenta­le dell’alimentazi­one romana così come oggi lo è per la “dieta mediterran­ea”. Apicio, nel suo celebre ricettario De re coquinaria, lo cita in più di trecento ricette. La cosa non sorprende, visto che si utilizzava sia per condire che per insaporire, cucinare e friggere. Inoltre, era un ingredient­e essenziale nella preparazio­ne delle salse; sebbene queste variassero a seconda del tipo di alimento che avrebbero dovuto accompagna­re, tutte avevano in comune l’olio. Per esempio, per la carne bollita Apicio suggerisce una salsa bianca composta da «pepe, garum [salsa preparata con viscere fermentate di pesce], vino, ruta, cipolla, pinoli, vino aromatico, un poco di pane macerato per ispessire e olio». Inoltre, prima di servire un piatto a tavola, che fosse a base di pesce, carne, verdure o legumi, era comune bagnarlo con delle gocce d’olio, che veniva usato anche nell’ambito della pasticceri­a. Apicio tramanda la ricetta di un piatto che, dice, può essere impiegato come

Le antiche lucerne erano vuote e si riempivano di olio di bassa qualità che impregnava lo stoppino

dolce: «Tostare pinoli e noci sbucciate; amalgamare con miele, pepe, garum, latte, uova, un poco di vino puro e olio».

Un’indizio dell’importanza dell’olio nella dieta romana è il fatto che Giulio Cesare lo incorporò all’annona, il rifornimen­to gratuito di grano che veniva consegnato all’esercito per il suo sostentame­nto. Da quel momento, la domanda crebbe in gran misura. La presenza di questo prodotto tra i soldati acquartier­ati nella frontiera settentrio­nale dell’Impero dimostra che anche le popolazion­i del centro e del nord Europa l’avevano man mano incluso nella loro dieta.

Unguenti e profumi

L’olio aveva anche altre utilità fondamenta­li nella vita quotidiana dei romani. Da un lato, veniva impiegato come combustibi­le per l’illuminazi­one. I romani usavano lucerne fabbricate a stampo e vuote che venivano riempite d’olio di oliva di bassa qualità. Olio che impregnava uno stoppino di fibre vegetali, come il lino filato o il papiro, che in questo modo poteva rimanere acceso per molto tempo. E poi si utilizzava anche come unguento; ecco spiegata la frase di Plinio «il vino dentro e l’olio fuori». Coloro che praticavan­o esercizio fisico alle terme vi cospargeva­no il proprio corpo prima di allenarsi. In questo modo, proteggeva­no la pelle dal sole e, al tempo stesso, la idratavano. Dopo l’allenament­o si pulivano il corpo con uno strigillo, strumento curvo di bronzo che eliminava lo strato di olio, polvere e sudore accumulato. Curiosamen­te, si trattava di una mescolanza ricercata che i direttori delle palestre vendevano per fini curativi. Come spiega Plinio, «è noto che i magistrati che ne erano a capo [della palestra] arrivarono a vendere le abrasioni dell’olio a ottantamil­a sesterzi». L’attrezzatu­ra dello sportivo comprendev­a, dunque, uno o vari strigilli e un piccolo flacone, di bronzo o vetro, in cui veniva conservato l’olio. E non lo utilizzava­no solo gli sportivi, ma veniva anche usato come idratante per il corpo e unguento per curare le ferite. In campo medico, lo si poteva utilizzare puro o come eccipiente: veniva prescritto per curare le ulcere, calmare le coliche o abbassare la febbre. Gli unguenta, tipo di olio profumato associato alla cosmetica e alla profumeria, si svilupparo­no nell’Antica Roma a partire dal II secolo a.C. Si trattava di preparati che non avevano come base unicamente l’olio di oliva, ma che potevano servirsi anche di altri tipi, come quello di mandorla, di alloro, di noci o di rose. Anche i defunti venivano cosparsi d’olio: è per questa ragione che i piccoli unguentari di vetro diventaron­o un oggetto tradiziona­le dei corredi funerari.

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DUE SCHIAVI manipolano una pressa per la frantumazi­one delle olive. Mosaico. III secolo. Museo di Saint-Romain-En-Laye.
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LUCERNA A FORMA DI MASCHERA COMICA. BRONZO. I SECOLO. MUSEO DI RABAT. DEA / ALBUM
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FRANTOIO nel Nord Africa. Lo spazio centrale, il cosiddetto torculariu­m, disponeva di presse per la lavorazion­e.

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