EMBLEMA LEGIONARIO
Fibbia di cinturone per spada della X legione Fretensis, di stanza in Giudea tra il I e il II secolo d.C. Museo d’Israele, Gerusalemme. L’imperatore riteneva che tutti gli alti magistrati dell’amministrazione romana fossero mossi dall’avidità: quando si insediavano in una nuova destinazione, la loro prima preoccupazione era arricchirsi il più rapidamente possibile, rubando a piene mani. Ma, se avessero dovuto trascorrere molto tempo nella stessa provincia, a un certo punto si sarebbero saziati e lo spoglio di ricchezze sarebbe avvenuto più lentamente, causando meno danni ai territori governati. All’imperatore piaceva portare questo esempio: un uomo giace a terra con una ferita ricoperta di mosche; passa un viandante, prova pena per il moribondo e si avvicina per scacciare gli insetti. Ma il ferito gli chiede di non farlo e risponde così al viandante che gliene domanda la ragione: «Se le scacci, la mia situazione peggiorerà. Queste mosche sono ormai sazie dal mio sangue, al punto che quasi non le avverto ma, quando se ne andranno, arriveranno altri insetti più affamati e mi succhieranno via anche agli umori interni».
Pilato, il provocatore
Pilato era un amministratore competente, ma duro. Uno dei suoi primi atti fu un’aperta provocazione verso gli abitanti di Gerusalemme. Sapeva che la legge ebraica proibiva le rappresentazioni umane, e in particolare quelle dell’imperatore romano, che si proclamava dio e offendeva in questo modo Yahweh. Tuttavia, Pilato pensava che la tolleranza verso gli ebrei fosse una dimostrazione di debolezza, così ordinò ai suoi soldati di portare in città le insegne con l’effigie dell’imperatore. L’operazione si svolse di notte, per mettere gli ebrei di fronte al fatto compiuto. Al mattino seguente, vedendo gli stendardi appesi alle mura della residenza del prefetto (l’ex palazzo di re Erode), la popolazione insorse. Ma Pilato, sprezzante, se n’era già andato a Cesarea, la capitale amministrativa della provincia. Gli ebrei non si diedero per vinti e in molti percorsero i 120 chilometri fino a Cesarea per esprimere la propria indignazione davanti a Pilato. Esigevano il rispetto delle proprie tradizioni e chiedevano che gli stendardi e le immagini imperiali
fossero trasferiti al di fuori della città santa. Pilato, impassibile, li ignorò ma, al sesto giorno di proteste, li fece radunare nello stadio. Contemporaneamente ordinò a una coorte (un’unità di circa cinquecento uomini) di nascondersi nei meandri dell’edificio. Tra le grida furiose della folla, il prefetto dichiarò che le insegne sarebbero rimaste al loro posto, in quanto simbolo del potere imperiale. Poi, quando ne ebbe abbastanza delle proteste, diede ordine ai soldati di schierarsi con le spade sguainate nell’arena e sugli spalti e di circondare gli ebrei. Ma questi non si lasciarono intimidire. Si gettarono a terra scoprendosi il collo, come se invitassero i soldati a ucciderli, e intanto gridavano: «Preferiamo morire piuttosto
che vedere le nostre leggi violate con tanta insolenza». Pilato fu costretto a cedere. Fu la sua prima sconfitta. Ma non imparò la lezione. Lo stesso Filone riferisce che per ripicca il prefetto fece appendere, ancora una volta alle mura del palazzo di Erode, degli scudi dorati «che non avevano alcuna raffigurazione né altro simbolo proibito», ma la cui iscrizione rappresentava di per sé un’offesa: «Pilato dedica questi scudi a Tiberio», si leggeva. Gli ebrei insorsero nuovamente, sostenendo che quegli scudi erano inutili e offensivi, e chiedendo a gran voce che si rispettassero «le tradizioni dei padri che per secoli erano state osservate da re e imperatori». Il prefetto li ignorò di nuovo e questa volta gli abitanti di Gerusalemme si rivolsero direttamente a Tiberio, che alla fine ordinò che gli scudi fossero rimossi e trasferiti a Cesarea. Un’altra sconfitta per il prefetto.
Alla successiva occasione di scontro fu però Pilato a prevalere. Gerusalemme era afflitta da una siccità cronica: né la trentina di cisterne della città né la fonte principale, la piscina di Siloe, bastavano a rifornire le migliaia di pellegrini che si recavano in città durante le feste. Per risolvere questo annoso problema, Pilato decise di far costruire un acquedotto che partiva da una sorgente nei pressi di Betlemme, a una decina di chilometri dalla capitale. Per finanziare i lavori confiscò una parte del tesoro del tempio, che per gli ebrei era intoccabile. Quando la cosa si venne a sapere, migliaia di cittadini andarono a protestare davanti al pretorio, residenza abituale dei governatori romani: costruire l’acquedotto era giusto, ma non con i soldi del tempio. Poiché le proteste non accennavano a placarsi, Pilato ordinò ad alcuni membri della sua guardia di travestirsi e mescolarsi ai rivoltosi con bastoni e pugnali nascosti sotto le vesti. All’ordine dell’ufficiale di comando, i soldati si scagliarono contro la folla, uccidendo almeno un centinaio di persone. La protesta si concluse e Pilato poté costruire l’acquedotto. Ma l’odio contro di lui non fece che aumentare.
Il giudice di Cristo
È difficile credere che una persona del genere possa essersi comportata come riferiscono i Vangeli. Le autorità ebraiche avevano deciso di rivolgersi a Pilato per sbarazzarsi di Gesù.
Pilato fece massacrare chi protestava per il fatto che lui avesse usato i soldi del tempio per costruire un acquedotto
COLTELLI DELL’EPOCA DELLA RIVOLTA ANTIROMANA DI BAR KOKHEBA (132-135 D.C.), RITROVATI NELLA GROTTA DELLE LETTERE, NEL DESERTO DELLA GIUDEA.
Erano infatti preoccupate dal suo ingresso trionfale a Gerusalemme e dal suo tentativo di espellere i mercanti e i cambiavalute dal tempio – un fatto che aveva suscitato molto scalpore e ostacolato il normale funzionamento del santuario. Avrebbero potuto semplicemente pagare qualche sicario e una folla di manifestanti perché lo lapidassero con l’accusa di blasfemia, ma i capi religiosi della comunità ebraica avevano paura del popolo. Era meglio condurlo dinanzi al prefetto, che era l’unico ad avere il potere di imporre la pena capitale e, a quanto ne sapevano le autorità ebraiche, vedeva con preoccupazione gli insegnamenti di Gesù. Secondo il Vangelo di Luca, l’accusa fu di aver sobillato le folle, essersi opposto al pagamento dei tri-
buti dovuti all’imperatore e aver affermato di essere il «Messia».
I Vangeli sostengono che Pilato fece il possibile per salvare Gesù, perché lo riteneva innocente: una circostanza assolutamente inverosimile, se si considera il carattere del prefetto. Inoltre la sua reazione è descritta tramite una serie di immagini poco realistiche, come la famosa scena in cui si lava le mani prima di condannare Cristo – un gesto che non rientrava nella tradizione romana –, a indicare che la colpa della sua morte sarebbe ricaduta sugli ebrei, che avevano voluto la sua crocifissione.
D’altra parte, la proclamazione dell’innocenza di Gesù da parte del prefetto (che non lo riteneva colpevole di alcun delitto) può essere interpretata come un tentativo cristiano di esonerare i romani dalla responsabilità della morte del Salvatore. Il cristianesimo, infatti, si stava diffondendo nell’impero e non aveva interesse a entrare in conflitto con le autorità romane, ma allo stesso tempo voleva prendere le distanze dall’ebraismo, con cui rischiava di essere confuso. Per questo gli evangelisti cercarono di addossare ogni colpa al popolo ebraico e in particolare ai suoi capi. In realtà gli studiosi hanno pochi dubbi sul fatto che fu Pilato a ordinare l’arresto di Gesù e a processarlo sbrigativamente tramite una cognitio extra ordinem: un giudizio legale abbreviato che prevedeva la presentazione delle accuse, un’eventuale replica dell’imputato e la sentenza immediata.
Secondo la legge romana, Gesù fu condannato subito a morte. In questo modo Pilato assolse al suo compito di salvaguardare l’ordine pubblico e preservare l’autorità dell’imperatore Tiberio. La crocifissione fu collettiva ed esemplare: Gesù non fu giustiziato da solo, ma insieme ad altri due rivoltosi antiromani che, secondo alcuni, erano suoi seguaci. Pilato, comunque, doveva ritenere Gesù meno pericoloso di altri ribelli, visto che alla fine fece eliminare solo lui e, al limite, un paio di suoi sostenitori, ma non perseguitò il resto dei fedeli. Il mandato di Pilato in Giudea si concluse in linea con questo atteggiamento sprezzante e conflittuale: con la crudele repressione di una manifestazione religiosa di samaritani, da lui interpretata come una rivolta armata. In Samaria circolava una leggenda secondo la quale gli oggetti sacri di Mosè erano sepolti da secoli sul monte sacro di Garizim. Un profeta proclamò di aver ricevuto una rivelazione divina: le coppe stavano per tornare alla luce e il santuario samaritano sul Garizim sarebbe così diventato il più importante di Israele, scavalcando il tempio di Gerusalemme. I seguaci del profeta, alcuni dei quali armati, organizzarono una processione per raggiungere la vetta. Pilato fece schierare ai piedi del monte due coorti di fanteria e uno squadrone di cavalleria, che attaccarono brutalmente i pellegrini e ne fecero una strage. Inoltre, Pilato fece giustiziare i presunti capi della rivolta sopravvissuti al massacro.
Suicidio nella Gallia
L’indignazione dei samaritani, e degli stessi giudei, di fronte a questo episodio fu di tale portata che si decise di inviare al più presto una delegazione a Roma. I partecipanti riuscirono a farsi ricevere da Tiberio, che ordinò la destituzione del prefetto. Il legato della Siria Lucio Vitellio il Vecchio si incaricò di eseguire la sentenza. Pilato dovette rientrare a Roma, ma al suo arrivo Tiberio era morto. Il suo successore, Caligola, mantenne in vigore la sentenza e mandò il prefetto in esilio nella Gallia Viennense, dove si sarebbe suicidato più tardi. In seguito comparvero degli scritti apocrifi che avevano il prefetto come protagonista, ad esempio gli Atti di Pilato (o Vangelo di Nicodemo), varie paradoseis o “tradizioni” fantasiose, e alcune lettere a Tiberio ed Erode a lui attribuite, anch’esse false. La Chiesa etiope ritiene che Pilato si convertì al cristianesimo e morì da martire, e ne celebra la ricorrenza il 25 giugno.