Io non avevo paura
PROVENGO DA UNA FAMIGLIA tradizionale, simile a milioni di altre. I miei genitori e i nonni avevano vissuto il secondo conflitto mondiale: da piccolo ascoltavo i racconti sugli orrori della guerra e del fascismo. Sull’impegno della Resistenza. Quanti partigiani aveva sfamato di nascosto la mia nonna materna! C’erano anche episodi divertenti, come quello di mamma — ancora adolescente — che non ne voleva sapere di alzarsi nel cuore della notte quando suonava la sirena d’allarme: la nonna la prendeva in braccio e poi, giù, nel rifugio, dove alla fine rideva e giocava con le sue amiche e quando ritornavano in casa, le veniva una gran fame... e vai di spaghetti. Mi hanno trasmesso il senso della giustizia, l’odio per le dittature di qualunque genere, il significato della comprensione verso l’altro. Mi hanno insegnato a distinguere il bene dal male. Grazie a loro ho compreso il significato della rinuncia e della paura, e ho imparato a gestirle. Gli «attacchi di panico» e l’ansia da prestazione, allora, erano praticamente assenti; esistevano casi di depressione, ma piuttosto sporadici.
Saltiamo due generazioni e arriviamo agli adolescenti di oggi, che sempre più sovente ricorrono ad antidepressivi e ansiolitici. Non ho la presunzione per liquidare la faccenda dichiarando che attacchi di panico, fobie e sindromi depressive nei giovanissimi siano causati dal benessere, tanto più che in casa mia non è mai mancato nulla — anche se sempre nella giusta misura — e per di più, non ho figli. Ma è un argomento che mi appassiona, mi sono fatto delle domande, e mi permetto di condividerle con voi. Forse i genitori dei 20enni di oggi hanno avuto un modello di riferimento che aspirava «al top», spesso al di sopra delle proprie possibilità, trasmettendo ideali fasulli? E, forse, hanno protetto i propri figli in maniera esasperata, risparmiando loro gli aspetti più tristi della vita?
Recentemente ho letto una bella intervista a Giorgio Nardone, psicoterapeuta e psicologo: «Il principale errore educativo della nostra società è l’iperprotezione dei figli, e il tentativo di allontanarli dalla sofferenza. Fino a non portare i bambini al funerale del nonno». Infine, aggiungo io: il prototipo standard di figo, ricco e ben vestito a tutti i costi, è devastante. Fate una passeggiata a Forte dei Marmi: pullula di bellissime minorenni truccate e firmate dalla testa ai piedi per andare in spiaggia. E le bruttine? E gli «sfigati»? Una spaccatura che contribuisce ad alimentare uno stereotipo culturale disastroso, privo di sentimento e di senso della condivisione. Generando i nuovi mostri del futuro.