Piovono parole
Da Dante allo slang
EGLIO METTERE subito le carte in tavola, on the table: se pensate che la lingua italiana sia materia fissa e inerte, se pensate che gli italiani debbano parlare ancora come il Sommo Poeta, questo articolo non fa per voi, non andate avanti o andate al mare, come consigliò tempo fa un altro illustre fiorentino, tal Matteo Renzi. Se invece pensate che tutto cambi nel corso dei secoli, che nulla sia immutabile e che come si muovono le persone e le merci, si muovono pure le parole (sfidando spesso le leggi della sintassi e del ridicolo), allora questo articolo fa per voi. Almeno spero, I hope. La lingua italiana cambia, come tutte. E cambia alla velocità della fibra ottica. Arrivano
ni correntisti prima di ricadere sui contribuenti. Mettere tutto ciò in un titolo non è facile, e qui viene in soccorso a sirene spiegate la lingua inglese, lingua della velocità (parola chiave) e degli affari, ormai diffusa in tutto il mondo. Con qualche eccezione: l’italia. Più che dagli anglicismi, De Mauro è infatti preoccupato dalla scarsa conoscenza delle lingue straniere e dall’esito di alcune indagini secondo cui oltre il 90 per cento dei nostri connazionali sa ormai usare l’italiano parlato, ma due terzi hanno difficoltà a leggere e scrivere, e metà di questi corre il rischio di scivolare nell’analfabetismo.
A porre un argine all’invasione straniera ci provò il fascismo per legge. Era l’autarchia linguistica: il regime riteneva «opportuno combattere l’incosciente servilismo che si compiace di parole straniere anche quando sono facilmente e perfettamente sostituibili con chiari vocaboli italiani già in uso». Due anni dopo, nel 1942, si dovette miti-