Il ruolo dell’arte
Una Biennale, la più nuova, dove l’impronta della curatrice fa davvero la (grande) differenza. A Riga.
Tra gli artisti presenti a Riga, i russi The Agency of Singular Investigations (Stanislav Shuripa e Anna Titova); sopra: dettaglio della loro installazione multimediale The Flower Power Archive.
UN’ALTRA BIENNALE? Molti pensano che ce ne siano già troppe. Molti ma non tutti, dato che inaugura adesso, dopo due anni di gestazione, l’interessante RIBOCA, aperta dal 2 giugno al 28 ottobre in nove diverse location nella città di Riga, in Lettonia. Una manifestazione che conferma la vitalità del format come un elemento irrinunciabile e che, in questo caso, si propone di sostenere il fermento di creatività che pullula nell’ambiente baltico ma anche di invitare gli addetti ai lavori a gettare uno sguardo verso questo affascinante angolo di mondo, europeo ma rimasto più isolato e segreto di tante zone dell’africa o dell’asia.
Riga, circa 700 mila abitanti, è una città parecchio vivibile, a misura d’uomo, la cui storia affonda nel passato per almeno otto secoli quando, poco dopo la sua fondazione a opera di un vescovo tedesco nel 1201, gli inte- ressi della Lega anseatica la resero prospera e, nel tempo, anche parecchio bella tanto che il centro storico è patrimonio dell’umanità Unesco. Il clima severo (d’inverno va facilmente a -20°C), non è peggiore di quello canadese e non scoraggia certo la proliferazione di pratiche visuali e artistiche, alimentate anzi dalle contraddizioni storiche e culturali di una nazione di confine, popolata da tante comunità diverse Ω lettoni, russi, bielorussi, polacchi e altri ancora Ω, occupata prima da invasori tedeschi, durante il nazismo, poi dai sovietici, finalmente «libera» dopo il 1991 e oggi membro dell’unione europea.
Ce n’è abbastanza per interrogarsi a fondo, come fanno infatti la carismatica fondatrice e sponsor della Biennale, Agniya Mirgorodskaya, e la curatrice prescelta per questa prima edizione, Katerina Gregos, ateniese di nascita, belga d’adozione e fra le personalità emergenti più interessanti del momento. Fra i suoi fiori all’occhiel-
lo, il padiglione danese alla Biennale di Venezia 2011,
Speech Matters, dedicato al delicato tema della libertà di parola, cruciale mentre infuriavano le polemiche per le prime vignette che il mondo islamico aveva dichiarato blasfeme, pubblicate per la prima volta proprio in Danimarca nel 2005. La Gregos ha curato poi l’edizione 2015 della Biennale di Salonicco, il padiglione belga ancora alla Biennale di Venezia (2015) centrato sul passato coloniale del Paese, ed è stata direttrice di Art Brussels ,la fiera di Bruxelles, che sotto la sua guida si è conquistata un posto di primo piano nel difficile mercato globale.
OGGI LA PRIORITÀ della Gregos è tornare a lavorare direttamente con artisti dal netto focus politico e sociale «perché non riesco a vedere l’arte fuori dal ruolo che può avere nella società» spiega. A Riga gli invitati sono 99, fra cui un buon 30 per cento radicato nel territorio e un solo italiano: Danilo Correale. Del tutto eccezionale è che parecchie opere siano state commissionate e pagate dalla Biennale, il cui budget è interamente privato: «Desidero creare un modello sostenibile» insiste la curatrice, «e non voglio che nessuno venga sfruttato: se dobbiamo produrre dei lavori nuovi vanno pagati gli autori. Su questo punto insisto sempre, come anche sul rispetto per le scelte di allestimento; gli artisti hanno il diritto di installare il lavoro come meglio credono». Non è sempre semplice: ad esempio, per la scultura pubblica dell’afro-olandese James Beckett, Palace Ruin (2016) serve un’intera piazza, che viene oltretutto sporcata e invasa dal fumo. Ma la complicità fra la Gregos e i suoi artisti è notoria e a Riga è diventata il modus operandi.
Le scelte, invece, sono state ispirate da un tema «forte» e inusuale (l’indipendenza e l’originalità è un altro tratto distintivo della brillante curatrice), riassunto nel titolo, Everything was forever, until it was no more, una frase dell’antropologo Alexei Yurchak («ogni cosa fu per sempre finché non fu più») in origine riferita al collasso dell’unione Sovietica ma qui applicata invece alle «radicali trasformazioni che coinvolgono le esistenze … La nostra è la prima epoca della storia umana in cui il concetto di cambiamento è stato accelerato sino a una velocità incredibile a causa delle rivoluzionarie innovazioni che hanno interessato insieme la tecnologia, l’informazione e il digitale. Siamo sempre reperibili, sempre in rete… In occidente non abbiamo mai vissuto un’epoca altrettanto prospera e al contempo non abbiamo mai avuto tanta gente “Prozac-dipendente”… Abbiamo opportunità incredibili ma d’altra parte potremmo finire in distopie inimmaginabili… Tutti temi discussi in sociologia ma non nell’arte contemporanea».