Ieri & oggi - Rivoluzione e repêchage
Lo stile muta con ritmi scanditi da tappe regolari. Finché una rivoluzione imprime (e impone) un cambiamento: ruolo che oggi appartiene alla presenza invasiva dello street style.
DICEVA Jean Paul Sartre che «la rivoluzione non è questione di merito, ma di efficacia. C’è del lavoro da fare, ecco tutto». E il lavoro della rivoluzione porta con sé mutamenti drastici nel costume e nella moda, che altro non sono se non una lettura del vivere, assetto sociale incluso. Se quest’ultimo subisce una brusca virata, quando non un ribaltamento totale dei valori e degli ideali su cui si fonda, questo mutamento si riflette sui codici del vestire generando cambiamenti profondi. Talora concreti, a volte teorici e ragionati, o dovuti alla contingenza dei fatti. Ma sempre determinanti, visibili e accelerati. La rivoluzione francese, in parallelo con la successiva industriale, è certo la prima occasione nell’epoca contemporanea in cui la volontà di tradurre in realtà un nuovo stile si manifesta con straordinaria virulenza. Ideologicamente l’obiettivo è chiaro: fare piazza pulita del lezioso vecchiume aristocratico, fatto di fogge, materiali e colori che nulla hanno più a che vedere con l’era che sta per affermarsi, né con le sue valenze. Rigore, sobrietà, determinazione e apertura al progresso, quantomeno nelle intenzioni. Vale per le concezioni politiche, le dinamiche economiche e i riferimenti culturali. Quindi anche per lo stile, in cui tutti questi valori si possono a grandi linee riassumere nei concetti di semplificazione e di eliminazione di ogni fronzolo.
Un secolo più tardi altri fremiti scuotono il mondo. La leadership borghese ha rivelato i suoi limiti e la sua capacità di generare ingiustizie e divari di classe non troppo diversi dall’ancien Régime. Le tanto auspicate «liberté, égalité et fraternité» precipitano nel dimenticatoio. Il pensiero socialista ha ormai radici più che salde e, come le posizioni di segno opposto, ha l’intento di scuotere l’ordine costituito. Scocca l’ora delle avanguardie in Europa, del
Futurismo in Italia, del Costruttivismo e del Suprematismo nella Russia zarista. Sono esperienze che riguardano il pensiero e l’arte, questo è chiaro, ma ciò non toglie che siano forse le più attente nel dedicare un’attenzione particolare e fortemente innovativa al vestire, o meglio, al concetto di vestire, quale espressione imprescindibile del vivere culturale e sociale. Da Giacomo Balla a Kazimir Malevich è un fiorire di studi, dichiarazioni e manifesti dedicati alla moda anti-borghese, concepita per il «nuovo uomo» e per la «nuova epoca». È un autentico trionfo di rivisitazioni di fogge, colori, logiche d’uso con una forte componente utopistica. Queste esperienze lasciano un segno nella storia della cultura, ma in definitiva vince la Realpolitik: in Italia Mussolini mette tutti in camicia nera e Stalin impone il «sano, semplice e ordinato» dovere proletario, in cui non ha spazio lo svolazzo artistico.
Altre dimensioni, rivoluzioni, visioni di stile. In cui è marcato il richiamo al vestire tradizionale dei differenti Paesi che fanno da scenario alle grandi svolte della storia. È il caso di Mao Zedong e dell’abito da contadino, che con lui diventa di tutti: uomini, donne, operai, soldati, funzionari di partito, intellettuali. È il caso della rivoluzione messicana del 1910-1917 con i sombrero e le cartuccere chilometriche, ben in vista in tutte le foto di Emiliano Zapata e Pancho Villa.
È quasi necessario concludere con la rivoluzione dei cubani di Fidel Castro, tutt’altro che alieno al fascino degli orologi più costosi, e di Che Guevara, un po’ più bohémien. Curiosamente, pur scomparsi i leader storici, a quasi 60 anni dalla presa del potere ancora si stenta a uscire dall’uniforme. Forse perché aveva ragione Stalin: «Non si può fare una rivoluzione portando i guanti di seta». Sarà per questo che oggi ci si accontenta di cambiare attraverso operazioni di repêchage e lo street style griffato appare rivoluzionario.