Mappa mundi - L’origine del mondo
SE, PER GIOCO, dovessi abbinare ciascun Paese a un celebre quadro, unirei l’italia alla Primavera di Sandro Botticelli, la Francia al Napoleone a cavallo di Jacques-louis David, gli Stati Uniti a I nottambuli di Edward Hopper, la Norvegia a L’urlo di Edvard Munch. Potrei andare avanti fino a esaurire tutti i 196 Stati dello scacchiere mondiale e sono certo che, arrivato al Botswana, lo abbinerei al dipinto L’origine
del mondo di Gustave Courbet. È in questo stato a Nord del Sudafrica, infatti, che 300 mila anni fa nacque, molto probabilmente, l’homo sapiens, per poi diffondersi, circa 70 mila anni fa, su tutto il pianeta. Fossimo venuti da una regione dove la notte dura sei mesi, cadremmo in letargo come i tassi e le marmotte. Invece quel nostro lontano antenato, appartenente alla famiglia degli ominidi e all’ordine dei primati, è probabilmente nel Botswana che apprese a camminare in posizione eretta, consentendo alla corteccia cerebrale di svilupparsi più che negli altri animali, e liberando gli arti superiori per trasformarli in utensili preziosi. Dotato della parola, questo nostro antenato sviluppò la sua vocazione sociale e politica, costruì organizzazioni complesse, elaborò tradizioni e leggi, cercò di comprendere la natura circostante dotandosi di strumenti cognitivi e operativi per esplorarla e assoggettarla. Alla curiosità di conoscere, aggiunse lo stupore per la bellezza.
IL BOTSWANA HA UNA SUPERFICIE doppia dell’italia ma una popolazione di appena 2,2 milioni di abitanti con una densità di 2,7 persone per chilometro
quadrato. Per farsi un’idea, si pensi che Roma, da sola, ha il doppio degli abitanti e una densità di 814 cittadini per chilometro quadrato.
Il suo nome significa «terra di coloro che parlano tswana», ma dal 1885 al 1966 la regione fu protettorato britannico per cui ancora oggi l’inglese resta lingua ufficiale, anche se parlata solo dal due per cento della popolazione (il resto parla il sestwana).
Il territorio è un immenso altopiano a mille metri sul livello del mare, occupato per il 70 per cento dal Kalahari, sesto deserto più grande del mondo, che ospita 70 specie di serpenti. Ma sono i parchi nazionali a fare del Botswana una meta turistica capace di attirare più di un milione di visitatori l’anno. Quello del Chobe, ad esempio, è uno dei più noti dell’intera Africa per le sue foreste di teak, la varietà della vegetazione e della fauna ma, soprattutto, per la massima concentrazione al mondo di elefanti (oltre 120 mila).
Attrazioni altrettanto fascinose sono i canali, le lagune e le isole che formano il delta del fiume Okavango, uno dei maggiori delta fluviali interni e tra gli ecosistemi più insoliti del pianeta, dove una flora di palme, acacie, papiri e ninfee e una fauna di aironi e cicogne, aquile e pappagalli, ippopotami e babbuini forniscono un habitat ineguagliabile a ben cinque diverse etnie umane.
ANCHE GRAZIE AGLI INTROITI da turismo il Botswana è relativamente ricco (quasi sei mila euro di reddito pro capite), eppure le disuguaglianze tra benestanti e poveri costringono metà della popolazione a vivere con meno di due euro al giorno. Nella capitale, Gaborone, si trovano l’unico ospedale e l’unica università. Oltre che sul turismo, l’economia si regge sulla pastorizia e l’estrazione di diamanti: i tre giacimenti maggiori (Jwaneng, Lethakana, Orapa) forniscono 21 milioni di carati l’anno. Alla fine del secolo scorso il ritmo di crescita economica arrivò fino al nove per cento annuo, tanto che il Botswana fu la prima nazione a uscire dalla classifica Onu dei Paesi meno sviluppati. Poi il progresso è drasticamente rallentato anche perché il governo ha dovuto dirottare molti fondi nel settore sanitario per fronteggiare l’aids che ha colpito il 40 per cento degli adulti.
OLTRE AI PARCHI e al delta dell’okavango, ciò che rende particolarmente interessante questo Paese è la compresenza di due piccoli gruppi etnici: circa 2.500 Khoi, detti anche ottentotti, e circa 2.500 San, detti anche boscimani. Benché spesso indicati collettivamente con il nome di Khoisan, e benché ormai accomunati da lingue e costumi molto simili, queste due etnie sono note agli etnologi di tutto il mondo perché rappresentano la rara sopravvivenza di due organizzazioni preistoriche che, nella notte dei tempi, dal Botswana si diffusero su tutto il resto del pianeta.
I boscimani restano da migliaia di anni cacciatori e raccoglitori nomadi. Si auto-definiscono «coloro che seguono la luce» perché si spostano nel vasto Kalahari in base alle piogge, per nutrirsi di tutto ciò che il deserto mette a disposizione. La loro organizzazione sociale basata sulla proprietà collettiva dei mezzi di produzione, sull’equa distribuzione dei beni, sulla debole divisione del lavoro, sul matriarcato e sulla poliandria ricorda quella del paleolitico. I Khoi, invece, testimoniano l’avvento di una fase più evoluta del percorso preistorico, in cui le tribù primitive scoprirono i vantaggi della stanzialità grazie all’agricoltura e alla pastorizia.
Mentre la cultura dominante in Botswana è un incrocio di costumi bantu e anglosassoni, la cultura khoisan non si è mai integrata, come racconta Laurens van der Post in The lost world of the Kalahari, ormai un classico dell’antropologia. Anzi, i boscimani sono in causa con il governo centrale che cerca di costringerli alla vita stanziale, cancellando così la loro identità antropologica.
CIÒ NON TOGLIE che il Botswana sia una repubblica moderata e pacifica, che intrattiene ottimi rapporti con le Nazioni Unite, con l’unione europea e con il Commonwealth, di cui fa parte. Recentemente il giornalista Tom Nevin, in base a tre sondaggi internazionali condotti da prestigiose società di ricerca, ha addirittura concluso che questo Paese, accanto al Canada, al Cile, alla Danimarca, al Giappone e alla nuova Zelanda, è uno dei sei Stati al mondo in cui vale la pena vivere, grazie alla sicurezza, alla debole corruzione, al buon governo, alle politiche sociali e al sistema giudiziario.
Il Botswana è uno dei sei Paesi al mondo dove vale la pena vivere per buon governo, debole corruzione, sicurezza, politiche sociali e sistema giudiziario