Sognando Conrad
Esplorare la Thailandia da una nuova prospettiva: un veliero a quattro alberi che arriva fin nelle baie più incontaminate. Sconfinando in Malesia.
CON IL SUO SORRISO MITE il Grande Buddha si staglia immacolato contro il cielo indaco. Una mano ha le dita rivolte verso il basso, l’altra è appoggiata al grembo nell’istante dell’illuminazione. Non stupirebbe se avesse trovato la pace proprio guardando, dall’alto dei suoi 45 metri (più i 400 del monte Nagakerd, sulla cui cima è posta), il mare cristallino delle Andamane. Perché oltre la nightlife spesso trasgressiva di Phuket c’è un’isola, la più grande della Thailandia, che invita a rallentare e meditare, tra il profumo di fiori di loto e incenso di cui è intrisa l’aria dentro i templi di Wat Chalong. Qui, come marinai d’altri tempi, si chiede la protezione dell’aldilà prima di prendere il largo, specie se per raggiungere le isole più incontaminate dell’arcipelago di Adang-rawi si decide di affidarsi al capriccio dei venti. Al tramonto, mentre la colonna sonora di Master and Commander emoziona e carica gli animi, le vele dei quattro alberi di Star Clipper, uno dei pochissimi velieri che ancora solcano queste acque, si dispiegano riflettendo il sole al tramonto e la prua inizia ad avanzare verso il mare aperto. Direzione Sud-sud-est, verso il parco nazionale marino di Tarutao, un tempo isola prigione, oggi patria felice di un quarto delle specie di pesci tropicali del mondo. La destinazione più gettonata qui è Ko Lipe, le cui baie all’ora di punta sono così piene di lance e motoscafi che si fatica a intravedere la spiaggia, mentre i naturalisti appassionati si dirigono verso il visitor center di Ko Tarutao, per farsi accompagnare a «caccia» di macachi mangia-granchi, entelli (che secondo il mito discendono direttamente dal dio-scimmia Hanuman) e cinghiali. Ma il segreto più gelosamente custodito dai lupi di mare è il gruppo di isolotti di Ko Butang, dove
IL PARCO MARINO DI
TARUTAO OSPITA UN QUARTO DELLE SPECIE DI PESCI TROPICALI DEL MONDO
immaginarsi Robinson Crusoe ma armati di maschera e pinne. Per un colpo d’occhio sull’intero arcipelago vale la pena fare un’escursione nella densa giungla (solcata da sentieri segnalati) all’interno di Ko Adang, per arrampicarsi in cima al suo punto più alto, 690 metri sul livello del mare, o attraversarla fino alla spiaggia nera sul lato settentrionale, magari con una sosta lungo il percorso per una doccia sotto una delle sue due cascate.
Sotto la volta celeste solcata dalla via lattea, che, lontano chilometri da qualunque forma di inquinamento luminoso, splende nitida come non mai, il capitano si lascia alle spalle la stella polare e dirige il vascello in Malesia occidentale. Destinazione Penang dove, scriveva Rudyard Kipling, «il migliore è come il peggiore, non ci sono i Dieci comandamenti e un uomo può placare la sua sete. Perché le campane del tempio mi stanno chiamando, ed è lì che vorrei
essere, accanto alla vecchia pagoda, guardando pigramente il mare…». Quel rintocco veniva forse dal Kek Lok Si, «il tempio del paradiso», il più grande del Paese, in cima alla Huock San, la collina che ricorda una gru dalle ali spiegate, e dominato dai sette piani della Pagoda dei dieci mila Buddha, dalla cui cima si scorge effettivamente il mare. L’atmosfera spirituale, però, è leggermente contaminata dall’ingerenza del lato profano: come avviene anche nel Tempio dei serpenti (una quindicina di chilometri più a Sud, così chiamato per le placide vipere, ammansite dagli effluvi d’incenso, che lo abitano), l’accesso al complesso passa per una sorta di grande bazar made in China.
Dell’antico splendore del periodo coloniale a George Town, la capitale, sono rimasti i cartelli con i nomi britannici delle strade e 1.700 edifici gioiello, come la Peranakan Mansion, l’eclettica residenza di fine ottocento di uno dei più ricchi uomini di Penang. L’intero centro storico (patrimonio Unesco dal 2008) colpisce per essere proprio un luogo d’incontro architettonico tra modernità europea e raffinatezze asiatiche.
DOPO LO SCONFINAMENTO in Malesia, si fa di nuovo rotta verso la Thailandia. Altre isole, altro parco naturale: gli atolli gemelli di Ko Rok Nok e Ko Rok Nai, due dei 15 che compongono l’arcipelago di Ko Lanta separati da un braccio di mare ampio appena 250 metri, sono immersi in un’area protetta disabitata, chiusa al pubblico da metà maggio a fine ottobre. Foresta tropicale, spiaggia bianca e una barriera corallina quasi tutta ad appena cinque metri di profondità massima ne fanno un paradiso per lo snorkeling, mentre all’interno si possono fare incontri ravvicinati con i grossi varani che si aggirano silenziosi tra gli
alberi della gomma. Poco più a Nord e più vicina alla terraferma c’è invece l’isola di Ko Muk, famosa per la Tham Morakot, grotta di Smeraldo: uno stretto passaggio lungo un’ottantina di metri, dove la luce riflessa dalla roccia trasforma l’acqua in una piscina. Merito anche dei fondali bassi e ricchi di vegetazione, mentre in quelli più alti scorrazzano rari dugonghi bianco cenere.
Superate le famose isole Phi Phi, prese d’assalto dai turisti alla ricerca delle atmosfere del film The beach, la Star Clipper s’inoltra nella baia di Phang Nga navigando verso un altro set da sogno: Ko Khao Phing Kan, che in thailandese significa letteralmente «le colline che si appoggiano l’una all’altra», ma che da quando fece da sfondo a Agente 007 – L’uomo dalla pistola d’oro tutti chiamano più semplicemente James Bond Island. Per la precisione il nascondiglio di Francisco Scaramanga, l’antagonista di Roger Moore, era Ko Tapu, lo scoglio a forma di cono rovesciato di
UNO DEI SEGRETI PIÙ GELOSAMENTE CUSTODITI DAI MARINAI SONO GLI ISOLOTTI DI KO BUTANG
GEORGE TOWN, IN MALESIA, è UN LUOGO D’INCONTRO TRA MODERNITÀ EUROPEA E RAFFINATEZZE ASIATICHE
fronte alla spiaggia, un «chiodo» di roccia alto 20 metri attorno a cui ronzano motoscafi sportivi e tradizionali long-tail boats, le piccole e agili imbarcazioni in legno dei pescatori, con la prua coperta di collane di fiori colorati.
Via dalla pazza folla, nel golfo ci sono almeno altri 40 isolotti che meritano di essere fotografati. Dal pelo dell’acqua ci si sente minuscoli di fronte alle pareti di roccia che raggiungono anche i 300 metri d’altezza, proteggendo piccole insenature dai fondali bassi dove l’acqua cristallina si colora di riflessi più tendenti al verde che all’azzurro. I più coraggiosi possono avventurarsi in kayak nell’esplorazione delle grotte marine, mentre ad arrampicarsi sulle scogliere si arrischiano solo alcuni temerari moken, i cosiddetti zingari del mare, unici abitanti dell’arcipelago. A mani nude, aiutati solo da corde e liane, vanno infatti a caccia di nidi di rondoni da vendere ai ristoranti cinesi gourmet: costruiti con una particolare secrezione salivale sono infatti una prelibatezza della cucina asiatica, specialmente come ingrediente principale di una zuppa, e arrivano a costare più di cinque mila euro al chilo.
SIAMO di nuovo vicino a Phuket, ma più il porto si fa prossimo più lo sguardo agogna il mare aperto, in quel desiderio d’infinito che si riconosce negli occhi di tutti i marinai. C’è ancora tempo per fare rotta verso Nord fino alle isole Similan, nove come dice il nome in lingua locale, a 30 miglia nautiche (55 chilometri) dalla terraferma. Particolarmente amate dalla famiglia reale thailandese, le autorità hanno deciso di vietare gli sbarchi in questo Parco nazionale marino nei mesi estivi per proteggerlo dal turismo d’assalto. Prima delle tre del pomeriggio, quando la maggior parte delle imbarcazioni ha ormai levato l’ancora per rientrare in porto, la spiaggia si perde dietro alle centinaia di persone che l’affollano scattandosi selfie. Ma quando ritorna il silenzio gli scogli levigati che abbracciano la spiaggia immacolata sono la cornice di un quadro unico al mondo. Da ammirare sentendo la sabbia soffice sotto i piedi, ma soprattutto dal mare. Perché, come diceva Joseph Conrad, «la vera pace comincia ad almeno mille miglia dalla costa più vicina».