L’abito che indossiamo è la maschera che ci rappresenta
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STRANA COSA è la moda. Mentre qualcuno si dichiara certo che abiti e accessori abbiano perso il contatto diretto con la società che vogliono vestire, i segnali che arrivano dalla creatività del sistema ci ricordano invece le basi fondamentali del nostro vivere in comune. Parlando della sua collezione Gucci per la donna e per l’uomo di questo inverno 2019, Alessandro Michele spiegava che la collezione è nata da una sua riflessione «su che cos’è il vestire. Mentre mi concentravo sugli abiti pensavo a che cosa fosse la maschera, che nella nostra vita è rappresentata dagli abiti. È stato interessante capire come e quanto gli abiti possono essere precisi sul modo di rappresentarci. Noi indossiamo le maschere/vestiti e loro si riempiono di noi». Al di là del fatto che le modelle e i modelli sfilassero in passerella indossando maschere che coprono il volto, la riflessione di Michele va direttamente a colpire uno dei significati più profondi su cui si basa la vita sociale: la reputazione. Infatti, se ci rappresenta, è l’abito stesso che costruisce la nostra reputazione,
La moda è un mezzo di comunicazione che aiuta a costruire la nostra personalità e, di fatto, ad accrescere la stima di cui godiamo.
elemento importantissimo della nostra vita privata e sociale tanto che molta parte della storia dell’umanità si basa su di esso. Secondo i dizionari, che appaiono concordi in tutte le lingue, la reputazione è «la stima e la considerazione in cui si è tenuti dagli altri».
E QUESTO VUOL DIRE che il giudizio altrui è talmente importante che non solo influenza ma addirittura forma la personalità di un individuo. E in questo, uomini e donne sono uniti da uno stesso destino, anche se con esiti diversi. Il significato di reputazione nasce nel teatro greco antico ed è legato proprio alla maschera. In Grecia gli attori entravano in scena indossando quella del personaggio che interpretavano e ne assumevano la reputazione: cattivo, buono, saggio, scapestrato, comico, innamorato, guerriero, potente, povero, ricco e così via. Bastava quindi un volto posticcio per raccontare un carattere e per comunicarlo agli spettatori. Ma se nella cultura ellenica il teatro era parte integrante della vita sociale era anche perché aveva preso tutti i suoi simboli dalla rappresentazione degli dei olimpici che indossavano una maschera quando volevano assumere i ruoli terrestri, ossia
In Grecia gli attori avevano la maschera del personaggio di cui assumevano il carattere
Costruirsi una reputazione vuol dire aver scelto la maschera che ci rappresenta
ogni volta che per combattere, per punire o per soccorrere, dovevano scendere dal loro regno e confrontarsi con gli umani. Si narra che la regola fosse stata suggerita a Zeus dalla Dea Bianca, divinità primordiale che per rappresentarsi usava la Luna, cioè una maschera. E una delle sue discendenti, Artemide, portava l’effige di Medusa impressa sul busto di cuoio perché la Gorgone con i cappelli di serpente era la sua rappresentazione, quindi la sua reputazione, nella veste di dea della caccia.
IL PERCORSO MITOLOGICO ha talmente segnato il pensiero umano che in Responsabilità e giudizio Hannah Arendt, una delle più grandi filosofe del Novecento, scriveva: «Siamo persone nel momento in cui scegliamo la maschera attraverso cui ci mostriamo sul palcoscenico del mondo». Quindi, costruirsi una reputazione vuol dire aver scelto la maschera che ci rappresenta.
Questo significato, però, fin dai tempi in cui la cultura maschile ha scelto di raccontarsi nella veste degli eroi, quella specie di semi-dei di cui Ercole è stato il più popolare, ha reso soprattutto i maschi schiavi della considerazione altrui per cui, specie
«Non mi importa che cosa dice la gente di me finché non è vero» (Truman Capote)
con l’avvento della cultura borghese, tra abito e reputazione si stabilisce un’equazione totale: l’abito rappresenta sia la personalità sia il ruolo sociale e quello che pensano gli altri diventa anche il paradigma della propria autostima. Un rischio sul quale filosofi e scrittori hanno lanciato l’allarme. Friedrich Nietzsche sosteneva: «Chi sa come si costruisce una reputazione diffida perfino della reputazione di cui gode la virtù» per concludere che soprattutto gli uomini vivono meglio dietro il paravento opaco che costruisce la rispettabilità. E infatti, è la «buona reputazione» il lasciapassare per l’affermazione sociale, anche oggi che infatti si parla di web reputation, nella società virtuale in cui vale quello che affermava Truman Capote in epoca insospettabile: «Non mi importa che cosa dice la gente di me finché non è vero».
DA QUESTO PERCORSO si può capire perché oggi il vero collante della reputazione in tutte le culture del mondo sia il potere e che in ogni parte del globo l’assioma «potere uguale buona reputazione» viene declinato attraverso l’abito, un significato da cui le donne, fortunatamente per loro, si sono interamente af
L’abito del potere ha conservato lo stesso significato anche ora che i Ceo indossano i maglioni
francate dopo aver utilizzato il tailleur-pantaloni per entrare nelle stanze del comando. Ancora oggi, se si analizza l’importanza che la reputazione riveste per i maschi, si vede che l’abito del potere ha lo stesso significato anche quando i Ceo indossano i maglioni.
COSÌ È SEMPRE L’ABITO che veste letteralmente le varie accezioni della parola reputazione. In Italia, dove non è mai definitiva e basta poco per passare da quella di delinquente allo stadio di rispettabile, un tuxedo di proprietà vale più di un intero guardaroba a prestito anche nell’epoca Instagram. Invece, gli uomini inglesi che ancora nel decennio scorso si vantavano che Eton fosse praticamente un Men’s Club continuano a usare la marsina e l’Eton jacket come simbolo di rispettabilità anche per neutralizzare i sondaggi che li vedono ultimi in classifica nella frequenza dei rapporti sessuali con le donne e tra i primi a vantare un’ambiguità sessuale che non viene perdonata ad altri. A legare indistintamente reputazione, vita quotidiana e abito restano però i giapponesi che nel momento in cui la perdono indossano il kimono ed esercitano il seppuku, da noi conosciuto come harakiri.