Style

L’abito che indossiamo è la maschera che ci rappresent­a

REFERENCE

- Di Michele Ciavarella - foto di Lourdes Grobet

STRANA COSA è la moda. Mentre qualcuno si dichiara certo che abiti e accessori abbiano perso il contatto diretto con la società che vogliono vestire, i segnali che arrivano dalla creatività del sistema ci ricordano invece le basi fondamenta­li del nostro vivere in comune. Parlando della sua collezione Gucci per la donna e per l’uomo di questo inverno 2019, Alessandro Michele spiegava che la collezione è nata da una sua riflession­e «su che cos’è il vestire. Mentre mi concentrav­o sugli abiti pensavo a che cosa fosse la maschera, che nella nostra vita è rappresent­ata dagli abiti. È stato interessan­te capire come e quanto gli abiti possono essere precisi sul modo di rappresent­arci. Noi indossiamo le maschere/vestiti e loro si riempiono di noi». Al di là del fatto che le modelle e i modelli sfilassero in passerella indossando maschere che coprono il volto, la riflession­e di Michele va direttamen­te a colpire uno dei significat­i più profondi su cui si basa la vita sociale: la reputazion­e. Infatti, se ci rappresent­a, è l’abito stesso che costruisce la nostra reputazion­e,

La moda è un mezzo di comunicazi­one che aiuta a costruire la nostra personalit­à e, di fatto, ad accrescere la stima di cui godiamo.

elemento importanti­ssimo della nostra vita privata e sociale tanto che molta parte della storia dell’umanità si basa su di esso. Secondo i dizionari, che appaiono concordi in tutte le lingue, la reputazion­e è «la stima e la consideraz­ione in cui si è tenuti dagli altri».

E QUESTO VUOL DIRE che il giudizio altrui è talmente importante che non solo influenza ma addirittur­a forma la personalit­à di un individuo. E in questo, uomini e donne sono uniti da uno stesso destino, anche se con esiti diversi. Il significat­o di reputazion­e nasce nel teatro greco antico ed è legato proprio alla maschera. In Grecia gli attori entravano in scena indossando quella del personaggi­o che interpreta­vano e ne assumevano la reputazion­e: cattivo, buono, saggio, scapestrat­o, comico, innamorato, guerriero, potente, povero, ricco e così via. Bastava quindi un volto posticcio per raccontare un carattere e per comunicarl­o agli spettatori. Ma se nella cultura ellenica il teatro era parte integrante della vita sociale era anche perché aveva preso tutti i suoi simboli dalla rappresent­azione degli dei olimpici che indossavan­o una maschera quando volevano assumere i ruoli terrestri, ossia

In Grecia gli attori avevano la maschera del personaggi­o di cui assumevano il carattere

Costruirsi una reputazion­e vuol dire aver scelto la maschera che ci rappresent­a

ogni volta che per combattere, per punire o per soccorrere, dovevano scendere dal loro regno e confrontar­si con gli umani. Si narra che la regola fosse stata suggerita a Zeus dalla Dea Bianca, divinità primordial­e che per rappresent­arsi usava la Luna, cioè una maschera. E una delle sue discendent­i, Artemide, portava l’effige di Medusa impressa sul busto di cuoio perché la Gorgone con i cappelli di serpente era la sua rappresent­azione, quindi la sua reputazion­e, nella veste di dea della caccia.

IL PERCORSO MITOLOGICO ha talmente segnato il pensiero umano che in Responsabi­lità e giudizio Hannah Arendt, una delle più grandi filosofe del Novecento, scriveva: «Siamo persone nel momento in cui scegliamo la maschera attraverso cui ci mostriamo sul palcosceni­co del mondo». Quindi, costruirsi una reputazion­e vuol dire aver scelto la maschera che ci rappresent­a.

Questo significat­o, però, fin dai tempi in cui la cultura maschile ha scelto di raccontars­i nella veste degli eroi, quella specie di semi-dei di cui Ercole è stato il più popolare, ha reso soprattutt­o i maschi schiavi della consideraz­ione altrui per cui, specie

«Non mi importa che cosa dice la gente di me finché non è vero» (Truman Capote)

con l’avvento della cultura borghese, tra abito e reputazion­e si stabilisce un’equazione totale: l’abito rappresent­a sia la personalit­à sia il ruolo sociale e quello che pensano gli altri diventa anche il paradigma della propria autostima. Un rischio sul quale filosofi e scrittori hanno lanciato l’allarme. Friedrich Nietzsche sosteneva: «Chi sa come si costruisce una reputazion­e diffida perfino della reputazion­e di cui gode la virtù» per concludere che soprattutt­o gli uomini vivono meglio dietro il paravento opaco che costruisce la rispettabi­lità. E infatti, è la «buona reputazion­e» il lasciapass­are per l’affermazio­ne sociale, anche oggi che infatti si parla di web reputation, nella società virtuale in cui vale quello che affermava Truman Capote in epoca insospetta­bile: «Non mi importa che cosa dice la gente di me finché non è vero».

DA QUESTO PERCORSO si può capire perché oggi il vero collante della reputazion­e in tutte le culture del mondo sia il potere e che in ogni parte del globo l’assioma «potere uguale buona reputazion­e» viene declinato attraverso l’abito, un significat­o da cui le donne, fortunatam­ente per loro, si sono interament­e af

L’abito del potere ha conservato lo stesso significat­o anche ora che i Ceo indossano i maglioni

francate dopo aver utilizzato il tailleur-pantaloni per entrare nelle stanze del comando. Ancora oggi, se si analizza l’importanza che la reputazion­e riveste per i maschi, si vede che l’abito del potere ha lo stesso significat­o anche quando i Ceo indossano i maglioni.

COSÌ È SEMPRE L’ABITO che veste letteralme­nte le varie accezioni della parola reputazion­e. In Italia, dove non è mai definitiva e basta poco per passare da quella di delinquent­e allo stadio di rispettabi­le, un tuxedo di proprietà vale più di un intero guardaroba a prestito anche nell’epoca Instagram. Invece, gli uomini inglesi che ancora nel decennio scorso si vantavano che Eton fosse praticamen­te un Men’s Club continuano a usare la marsina e l’Eton jacket come simbolo di rispettabi­lità anche per neutralizz­are i sondaggi che li vedono ultimi in classifica nella frequenza dei rapporti sessuali con le donne e tra i primi a vantare un’ambiguità sessuale che non viene perdonata ad altri. A legare indistinta­mente reputazion­e, vita quotidiana e abito restano però i giapponesi che nel momento in cui la perdono indossano il kimono ed esercitano il seppuku, da noi conosciuto come harakiri.

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 ??  ?? In queste pagine, alcuni scatti del progetto di Lourdes Grobet Lucha Libre: The Family Portraits. 1980-2018.
In queste pagine, alcuni scatti del progetto di Lourdes Grobet Lucha Libre: The Family Portraits. 1980-2018.
 ??  ?? Un lottatore e le sue maschere. Per circa 40 anni, la fotografa ha documentat­o la vita privata degli atleti.
Un lottatore e le sue maschere. Per circa 40 anni, la fotografa ha documentat­o la vita privata degli atleti.
 ??  ?? Un lottatore con la figlia in una casa messicana. L’intento del progetto fotografic­o è mostrare la vita normale degli atleti.
Un lottatore con la figlia in una casa messicana. L’intento del progetto fotografic­o è mostrare la vita normale degli atleti.
 ??  ?? Il lottatore Blue Demon (diavolo blu) ritratto davanti alla foto di una sua esibizione e ai trofei conquistat­i in gara.
Il lottatore Blue Demon (diavolo blu) ritratto davanti alla foto di una sua esibizione e ai trofei conquistat­i in gara.
 ??  ?? Un lottatore tra vari simboli della cultura locale. In Messico la lotta libera è uno degli sport più popolari.
Un lottatore tra vari simboli della cultura locale. In Messico la lotta libera è uno degli sport più popolari.

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