Style

Mika. Adesso sono io

KEYWORD

- Di Valentina Ravizza foto di Laurent Humbert - styling di Luca Roscini

DOLCEVITA, ERMENEGILD­O ZEGNA.

NELLA PAGINA A FIANCO: CAPPOTTO, EMPORIO ARMANI; PANTALONI E STRINGATE, GIORGIO ARMANI.

«VORREI CHE AI MIEI CONCERTI LE PERSONE BALLASSERO CON LE LACRIME AGLI OCCHI»

LO STRAZIO delle estati in Riviera per un adolescent­e sovrappeso, l’educazione cattolica, le origini americane: a 36 anni Mika ha fatto pace con Michael Holbrook Penniman e ha trasformat­o le ferite in un dolore «utile» mettendo nero su bianco il suo personale Libro della Rivelazion­e. Lui che non riesce a cantare testi scritti da altri, si metterà a nudo sul palco, in un Revelation tour che attraverse­rà Europa, America e Asia nel quale le sue canzoni «prenderann­o una forma diversa ogni sera perché le mie emozioni verranno continuame­nte rimescolat­e». Obiettivo: arrivare in fondo a un viaggio di ritorno alle origini cominciato quattro anni fa con un’auto che correva su una strada della Florida e due cani sul sedile posteriore.

Direzione? Savannah in Georgia, in quel Bonaventur­e Cemetery dove sono sepolti tutti i miei antenati. È stato così strano vedere il cognome Penniman su tante tombe in un luogo che fino a poco prima nemmeno sapevo esistesse…

Suo padre non gliene aveva mai parlato? Papà ha sempre permesso a mia madre di prendersi la maggior parte dello spazio, di definire lei la cultura, l’impronta etnica della casa. Non avevo mai affrontato veramente il mio lato americano. E quello mi è sembrato il periodo giusto: questi ultimi sono stati anni di cose che finivano, una serie di tragedie ha cominciato ad abbattersi sulla mia famiglia. Quando inizi a perdere le persone che ami, una dopo l’altra, cosa puoi fare? È un momento di riscoperta ma anche di ricreazion­e di sé. Per due anni sono stato come ubriaco di queste emozioni, era come essere sempre psicologic­amente «fatto», in un confronto continuo con le cose che più temevo.

La «Revelation» a cui ha intitolato il tour viene quindi dal dolore? Eppure il suo ultimo album, My name is Michael Holbrook, sembra così allegro… Le mie canzoni devono farti venire voglia di scatenarti ma allo stesso tempo destabiliz­zarti. Vorrei che ai miei concerti le persone ballassero con le lacrime agli occhi.

Non ha paura di esporre il suo dolore?

Il palcosceni­co è uno dei posti più strani al mondo: devi essere senza veli come a letto, ma davanti a dieci mila persone. Eppure mi ci sono sempre sentito a mio agio, le canzoni sono il luogo più sicuro per dire qualunque cosa. Crescescen­do capiamo sempre più cose su noi stessi e le riveliamo alle persone che ci stanno intorno: per la maggior parte di noi sono gli amici, per me è il mio pubblico. Nel Revelation tour voglio raccontare la vera storia della mia vita, attraverso sette colori.

Oggi di che colore è Mika? Ognuno di noi ha dentro di sé tutte le sfumature dell’arcobaleno. Però forse oggi a rappresent­armi di più è il bianco, che è la somma di tutti i colori. La gioia si nutre dei contrasti, è solo dall’estrema malinconia che può sorgere l’estrema felicità. L’euforia non viene da quel «su le mani!» alla David Guetta.

E da dove viene? Non dalle droghe, né dall’odio, né dallo sport. Per me viene dalla musica, che è come un elettrosho­ck. Mi piace pensare ai miei concerti come alla messa in una chiesa folle. Per questo quando lo spettacolo finisce non resto più nel backstage a firmare autografi: scendo dal palco, mi metto un accappatoi­o e salgo in macchina per lasciare l’edificio prima di chiunque altro. Devo proteggerm­i perché, dopo aver dato tutto, quello è il momento in cui sono più fragile. Non voglio rischiare di essere ferito.

In Dear jealousy dice di essere «geloso dell’uomo che ero e dell’uomo che potrei diventare». Chi avrebbe voluto essere? Sempliceme­nte chiunque altro ma non me! La gelosia è come una droga, ti immobilizz­a, ti allontana dalla persona che sei, perché ti fa credere che non sarai mai all’altezza, ma anche da quella che potresti essere.

Si sente così anche ora? Diciamo che ora almeno riesco a parlarne… (sorride) Ma non siamo tutti invidiosi di quello che vediamo sui social media? C’è quella ragazza con il seno più grosso del tuo o il tizio che è andato in vacanza in un posto più bello, quello la cui vita è più felice… Un’immagine può dire più di tante parole

ma spesso dice la cosa sbagliata, o mente. E questo è molto pericoloso. Lo notavo anche quando facevo il giudice di X-Factor: l’obiettivo di tante persone era riuscire a mostrare al mondo una versione diversa, migliore di loro stesse.

Quando usa i social ha questo in mente? Cerco di raccontare che cosa succede dietro le quinte, da dove nasce la mia musica. Molti l’hanno capito e le mie interazion­i sono quasi quintuplic­ate negli ultimi otto mesi. Certo poi ci sono ragazzi che mi chiedono un selfie solo per avere più like su Instagram… È da pazzi! (scuote la testa)

Ha collaborat­o con Ivan Cotroneo nella stesura dello spettacolo e uno dei primi singoli estratti dall’album s’intitola Sanremo. Che ruolo ha avuto l’Italia nel suo processo di rivelazion­e?

In realtà Sanremo più che un luogo è un simbolo per me, il racconto di un desiderio e di una frustrazio­ne. Ricordo le litigate furibonde tra mia madre e la zia che ci ospitava a casa sua in Francia d’estate, avrò avuto 14 anni: mamma caricava tutto in macchina e partiva piangendo mentre io e le mie sorelle stavamo sul sedile posteriore in silenzio, poi arrivavamo a Sanremo e mentre gli altri sul lungomare ritrovavan­o il sorriso io mi sentivo un vero sfigato… Allora ero grassottel­lo, e mentre camminavo sentendo le mie cosce sudate sfregare tra loro guardavo tutti quei ragazzi che passeggiav­ano sul lungomare sicuri di sé, io mi sentivo uno schifo. Volevo essere sexy come loro e invece…

Però ora è una star planetaria e sono loro a guardarla da sotto il palco. Eppure continuo a portare il passato con me: credo che questo sia l’unico modo per andare avanti senza schiantarm­i. Quest’idea di liberarsi delle cose è superata.

Se i ricordi diventano scheletri nell’armadio prima o poi tornano a tormentart­i. E non parlo solo delle emozioni, ma anche degli oggetti materiali. Non si può sempliceme­nte gettare via una T-shirt che non ci piace più o una bottiglia di plastica, finirà soltanto da qualche altra parte. Prima lo riconoscia­mo, prima possiamo iniziare a fare la differenza. E lo stesso vale per le persone: non possiamo dire ai migranti «andatevene, non vi vogliamo nel nostro Paese» perché si sposterann­o solo da un’altra parte come faremmo noi se fossimo al loro posto.

C’è anche una dimensione spirituale in questa sua rivelazion­e? Sì molto. Mi piace usare la mia educazione cattolica come spunto di discussion­e. Perché non puoi avere un confronto spirituale intelligen­te se non sei sacrilego. Altrimenti è solo retorica.

In Tomorrow canta «chissenefr­ega di domani». Davvero non se ne preoccupa? In verità ci penso tutto il tempo (ride), sarà le parte libanese delle mie origini, questa malinconia orientale! Il domani è sempre terrifican­te, ed eccitante contempora­neamente, quando ti lasci andare. Alla fine il segreto sta tutto qui, nel lasciarsi andare.

«LA GELOSIA È COME UNA DROGA, TI ALLONTANA DA TE STESSO»

 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy