Place to be - Sulla cima del mondo
Scalare l’Himalaya in moto. Dalle pianure del Punjab a Leh, nello Stato indiano dell’Himachal Pradesh. Tra minareti e pagode, sembra proprio che alla f ine del percorso gli dei si siano dati appuntamento.
Sosta tra le verdi alture che circondano Manali, con il sole che squarcia le nubi.
LA STRADA che da Swarghat s’inerpica sull’Himalaya non è un collegamento tra un punto A e un punto B. Più si sale più diventa il senso supremo: le persone vivono lì per costruirla, levigarla, asciugarla, adorarla. Costi quel che costi. La strada è un serpente sacro che striscia sul tetto del mondo tra gli antichi dei al loro crepuscolo. Materie artificiali e grigie dettano legge dai primi tornanti. La fabbrica di calcestruzzo di Bilaspur riempie centinaia di camion che blandiscono il destino in due modi. Sul retro del cassone, con la scritta «blow horn» (suona il clacson) per regolare i sorpassi; sopra al parabrezza con le facce bluastre delle divinità indù. A volte gli dei si baciano e i camion bloccano la carreggiata, muso contro muso: è quindi meglio risalire i cespugliosi piedi del massiccio in moto. Il marchio di motociclette Royal Enfield produce un modello per questo manto polimorfo, l’Himalayan, e ogni anno organizza l’Himalayan Odissey, una carovana a migliaia di metri di quota. «Per gli indiani l’Himalaya è la neve e il sacro» spiega il marketing manager Santosh Vijay, «il battesimo del bianco avviene su queste cime». Per induisti e buddisti le vette sono la casa degli dei. «Siamo al confine col Nepal e, dietro, c’è il Tibet. Ma ormai i partecipanti alla carovana, spesso dirigenti e professionisti, sono agnostici».
Man mano che si lasciano a valle le pianure alluvionali del Punjab, a maggioranza sikh, i turbanti scompaiono dalle teste, gli occhi si assottigliano, gli zigomi si alzano, e gli stupa buddisti prendono a decorare i picchi, ricordo granitico dello scontro tra questo pezzo mutilato d’Africa e l’Eurasia. Il primo tempio che s’incontra, i cui muretti rossi si rincorrono su un pendio nei dintorni di Kullu, è dedicato al dio Hanogi Mata. I visitatori suonano una campana che pende sopra l’ingresso, il suono si mescola a quello dei clacson. Nei chilometri successivi le scimmie mordicchiano bottiglie vuote e disprezzano i viaggiatori dal guard-rail. Le vacche attraversano la strada con andatura annoiata, che le persone sembrano imitare. Vicino a Mandi cominciano i lavori stradali, si entra in un tunnel oscuro: i fanali sono fuocherelli in un abisso di polvere bianca.
A Manali il pino negli interni delle case e le tute da sci anni Ottanta potrebbero ricordare una Cortina d’Ampezzo del tempo che fu, non fosse per gli yak e per le lanterne rosse che illuminano verande di canne. Al posto della grappa, la charas (hashish himalayano): il circondario è popolato da sadhu, che la fumano per fede. Riprendendo la strada per Keylong si incrociano ragazzi israeliani freschi di leva. Uno di loro, Amit, monta una Royal Enfield con una corona di fiori finti attorno alla targa e racconta di averla comprata a Dharamsala per 1.500 euro: «È da mesi che non dormo due notti nello stesso posto» dice. Amit condivide un pezzo di strada con Anthony, bartender francese che ha appeso una fila di bandierine buddiste tra gli specchietti: «Gironzolo in Asia da un anno a caccia di nuove essenze» spiega.
MANALI SEMBRA CORTINA NEGLI ANNI OTTANTA, al posto MA della grappa C’È L’HASHISH
La strada somiglia a un serpente sacro che striscia sul tetto del mondo tra gli antichi dei al loro crepuscolo
A MAHRI (3.360 metri di altitudine) il debito d’ossigeno fa acquistare peso alla testa, perdere profondità al fiato. Le tavole calde buie e fumose sembrano già lontane anni luce. Ma si sale ancora, fino al passo Rohtang, che di metri ne conta quasi quattro mila, bianco in ogni stagione. Gli indiani, al primo contatto con questa materia soffice, ci camminano sopra scalzi e si lanciano dai pendii su ciambelloni gonfiabili. Si scollina tra le pozzanghere e si raggiunge Khoksar. Il suo perimetro è bordato da file di autoblindo: da un lato la Cina e dall’altro il Pakistan sono a una manciata di vette. Mangiando riso in baraccheristorante, dove con un braccio puoi toccare il soffitto, ci si sente riparati. Ancora verso Nord, si segue il corso tumultuoso del fiume Chenab per una valle in cui si distendono, per quello che possono, coltivazioni a terrazza di piselli. Poi, al di là di una porta di mattoni rossi sormontata da due cervi dorati, c’è Keylong.
In direzione di Leh si aprono lande pietrose e steppe oblique striate di bianco. La strada è un carruggio di neve alto tre metri e si susseguono i lavori in corso: chi lavora qui è chiamato «domatore di monti» e vive dentro tende canadesi a ridosso dei burroni. Per un tempo infinito non s’incontra un’abitazione diversa da un escavatore nel cui abitacolo dorme un operaio. Poco prima del passo Baralacha (4.890 metri), reduci da ore di nul
GUERRA E PACE: PLUMBEE CASERME SI ALTERNANO A VARIOPINTE costruzioni buddiste
la, gli occhi si dissetano nel blu elettrico del lago glaciale Suruj Tal («lago del dio sole»). Jagsir, un automobilista, ha tentato di superare un torrente con la sua auto: «Ora qualcuno mi deve dare un passaggio fino al cantiere più vicino. Chiederò a una gru di aiutarmi» dice. I campi tendati di Sarchu sfoggiano senza pudore file di water a cielo aperto. Superati i passi di Nakeela (4.920 metri) e di Lachalungla (5.066), si prosegue sul fondo di un canyon le cui rocce formano stupa rossastri. Dopo il villaggio di Pang, le nuvole disegnano sulle praterie pozze di luce tra cui brucano le capre. Qui gli operai stradali si radunano attorno ai viaggiatori e parlottano, ovattati dai cappucci dei piumini bianchi, con lande innevate alle loro spalle: sembra il set di Star Wars. Oltre il secondo passo più alto del mondo, Taglangla (5.328), donne col fazzoletto in testa spostano massi per liberare il passaggio.
Nella valle di Nubra, il fiume scorre tra cespugli di rose selvatiche e campi gialli di senape. Si passa nel Kashmir, conteso col Pakistan, con forte presenza musulmana. Guerra e pace: plumbee caserme militari si alternano a variopinte costruzioni buddiste. E infine, a Leh, tra il bazar della colonia tibetana e i minareti luccicanti, i colonnati di legno e i tetti a pagoda risentono della Cina. Sembra che tutti gli dei si siano dati appuntamento alla fine di questa strada.