Inchiesta - Sbullonare il bullismo
Insulti, pestaggi, molestie. A scuola o attraverso i social. Non un fenomeno pop, ma un mostro MULTIFORME. Imbattibile, ma da combattere. Sempre.
CI SI È MESSO pure Harry d’Inghilterra. Che in una lettera aperta, via web, ha stigmatizzato la persecuzione sofferta (dalla moglie Meghan Markle) a opera dei tabloid inglesi con un’indignatissima frase: «Put simply, it’s bullying». Ossia: questo è bullismo puro e semplice. Ma lo è davvero? Roma, una notte d’agosto del 2014, Marco, 14enne gay, si lancia nel vuoto. «Tutti mi prendono in giro, nessuno mi capisce. Non ce la faccio più». Catania, settembre 2019. Un ragazzo viene deriso dal bullo di quartiere per la sua disabilità. Colpito a schiaffi e pugni, ripreso su video e postato su Facebook. Solo due tra i tanti innumerevoli ritagli dalle cronache degli ultimi anni; in mezzo, il dilagare delle nuove tecnologie, smartphone e social, il bullismo che si fa «cyber», la cattiveria virale che provoca suicidi; minori insidiati da altri minori, un continuum di soprusi, prepotenze, violenze fisiche e sessuali. Secondo Il bullismo in Italia, report Istat datato 2014, tra gli 11-17enni oltre il 50 per cento ha subito le tipiche azioni di bullismo; poco meno del 20 per cento le subisce più volte al mese. Offese: soprannomi, parolacce o insulti; derisione, specie per l’aspetto e il modo di parlare. Diffamazione ed esclusione. Ma anche aggressioni. Spintoni. Calci, pugni, pizze in faccia. A chi non è capitato? Ecco un ricordo, ben impacchettato in un video nel sito i-D, di Alessandro Michele, lo stilista romano che ha reinventato lo stile di Gucci. «Alla fermata dell’autobus sono stato picchiato da adolescente, per come mi vestivo. Oggi ringrazio chi mi ha creato tante barriere intorno. Non vedevo l’ora di romperle».
Il bullismo come barriera? È un’ipotesi suggestiva. Corroborata da molte delle definizioni che gli stessi studenti danno del bullismo. Alcune, fulminanti, si trovano in una pubblicazione (Bulli e cyberbulli, ora basta, 2017) a cura dell’associazione culturale Aied, e provengono da alunni del Leonardo da Vinci, liceo di Roma: «Un’insicurezza che viene trasformata in violenza». «Un meccanismo usato da persone deboli che vogliono sentirsi più forti». Sistematicamente, viene visto come difesa aggressiva, con una diversità nel mirino. Quel che rende unico un individuo, in contrapposizione a un gruppo omologato; spesso, un elemento razziale o sessuale. La tecnologia, così spesso provvidenziale nella vita, non fa che esacerbare l’aggressione, esibendola e amplificandola.
Ma come difendersi? La legge, più di tanto, non aiuta. Paradossalmente ce n’è una sul cyberbullismo, ma ancora non esiste lo specifico reato di bullismo. La tutela della vittima e la persecuzione del colpevole sono affidate a norme sparse per il codice penale (stalking, percosse, lesioni, estorsione, minacce e diffamazione). Fa così il punto Maddalena Del Re, avvocata di Roma che segue il dossier per conto dell’Aied: «La cautela del legislatore è dovuta al fatto che quasi sempre si tratta di giovanissimi; e il nostro ordinamento investe sulla prevenzione, e in li
UN GIOVANE SU DUE SUBISCE? LE STATISTICHE INGANNANO. PER DIFETTO: SONO IN POCHI A SPEZZARE IL SILENZIO
nea con la Costituzione e le convenzioni internazionali, tutela il minore anche quando commette reati. Da inizio 2019 c’è peraltro una proposta di legge (la 1524, relatrice in Commissione Giustizia l’on. Valentina D’Orso) che prevede inasprimenti delle pene e maggiore responsabilizzazione degli adulti di riferimento quali i genitori e i dirigenti scolastici». Sarà utile?
«Se non si interviene per tempo, i ragazzi potrebbero sviluppare da adulti crisi di ansia, di autostima, depressione o comportamenti antisociali» ammonisce (nel libro L’età dei bulli, Sperling & Kupfer 2018) Luca Bernardo, medico in prima linea, dal 2008, come fondatore del Centro nazionale alla prevenzione e al contrasto di bullismo e cyberbullismo, il primo in Italia. «Se non si interviene sia sulla vittima che sul bullo perché sono entrambi espressioni, uguali ma opposte, di un profondo disagio affettivo e relazionale».
Si considerino, allora, i casi di un bullizzato, e di una bulla; testimonianze autentiche, nomi di fantasia.
CARLO, 15ENNE DALL’ARIA SERIA, timidezza e sguardo intensi, occhiali spessi, biondino: «Frequento un istituto tecnico, e anche se con la dislessia ho qualche difficoltà, mi piace studiare e giocare a basket; faccio il playmaker, il mio idolo è LeBron James. Ma l’anno scorso, entrato in una nuova squadra, sono stato preso di mira dai compagni di squadra, che hanno iniziato a sfottermi su tutto: “ma quanto sei scarso, ma come ti presenti, come ti vesti”. Studiando molto non riuscivo a farmi amicizie, sono rimasto isolato. Con la squadra in un camp estivo, una volta che ero di turno a stendere i panni sul balcone, in albergo, son venuti gli altri e mi hanno chiuso fuori. Dopo aver passato tutta la notte in balcone a bussare, ho sfondato la finestra a costo di farmi male. Un piccolo taglio sul braccio, ma usciva sangue. Così hanno chiamato l’allenatore. Poi i miei genitori mi sono venuti a prendere». È seguito un lungo percorso, di colloqui, sostegno psicologico, sensibilizzazione dei compagni di squadra. Com’è andata a finire? «L’allenatore mi ha esortato a continuare e sono riuscito a trovare un approccio anche con coloro che mi hanno fatto lo scherzo».
Alice, 16enne in fiore, boccoli scuri e un’aria spavalda: «Mi sono fatta largo a gomitate entrando in prima liceo: non avevo aspettative né amici, quindi facevo quello che volevo. Volevo costruire subito un gruppo per affrontare
È «un’insicurezza che viene trasformata in VIOLENZA» Ed amplif icata dalla facilità d’uso delle nuove tecnologie
le superiori insieme a qualcuno. Per essere accettata facevo battute sugli altri: in particolare Rita, compagna di classe troppo brava, occhialuta, benvista dai prof. Tutti gli altri o quasi mi hanno seguito: prendendo in giro collettivamente, prima in modo relativamente soft e “simpatico”, poi degenerando. Via via, vedendo che le battute funzionavano e venivano apprezzate, mi veniva da farne sempre di più, anche tramite un gruppo Whatsapp creato ad hoc. Sfottò alla quattrocchi, battute da prima superiore, roba infantile. Ma quando una compagna le è andata a dire di questo gruppo, è stato uno shock per lei, si è depressa sul serio. I genitori, allarmati, hanno parlato con la coordinatrice di classe, che ha avvertito la preside. Convocata, mi sono assunta le mie colpe. Abbiamo cancellato il gruppo. E ho capito l’importanza di avere rispetto da un’altra persona».
Dietro la risoluzione di casi simili, l’ordinario bullismo, c’è tanto lavoro, collettivo e invisibile. Che passa sempre per l’intervento di figure di riferimento (maestri, genitori, allenatori e così via), e il lavoro di psicologi, volontari, educatori ausiliari. A coordinare gli sforzi sono le tante associazioni che lavorano sul territorio, nei quartieri, con le scuole. Come Pepita a Milano, il cui fondatore, Ivano Zoppi, anche presidente della associazione Cuore e Amore, riassume così il suo piglio militante e generalista: «C’è bisogno di adulti di riferimento e il vero problema è che oggi non ci sono, o sono defilati». Il bullismo è un mostro troppo multiforme per poter pensare di sconfiggerlo. Ma l’errore sarebbe smettere di contrastarlo. «Tutti i ragazzi hanno del bello dentro. Trovarlo sta a noi: cominciando ad accoglierli, ad ascoltarli, a credere in loro».
TUTTI I RAGAZZI (ANCHE I BULLI) HANNO DEL BELLO DENTRO. TROVARLO STA A NOI: COMINCIANDO AD ASCOLTARLI