History repeating - Il ricatto del petrolio
Sono passati 46 anni dallo shock energetico che mise in ginocchio Europa e Stati Uniti e la dipendenza del mondo dall’oro nero non ha fatto che crescere. Ora una nuova crisi in arrivo dal Medio Oriente rischia di travolgere l’Occidente. E per combatterla c’è un’unica arma: il passaggio alle energie rinnovabili alternative.
MENTRE DAL PALAZZO delle Nazioni Unite a New York la 16enne Greta Thunberg gridava il suo anatema sul clima, «Ci avete rubato il futuro», dall’altra parte del mondo il potente principe ereditario saudita Mohammed Bin Salman gridava la sua minaccia all’Occidente: «Fermate l’Iran o il prezzo del petrolio schizzerà a livelli inimmaginabili». Siamo alla vigilia di un’altra guerra e di un nuovo shock energetico, come quello che nel 1973 mise in ginocchio Europa e Stati Uniti?
Rimuovere le lezioni della storia sembra essere una nostra specialità. Infatti, nessuno o quasi ricorda più le domeniche a piedi o in bici, i programmi serali della televisione interrotti prima delle undici di sera, le strade al buio. Ma soprattutto l’industria in crisi dopo gli anni del boom economico, conseguenza del taglio del 25 per cento degli approvvigionamenti petroliferi deciso dai Paesi dell’Opec a sostegno della campagna militare di Egitto e Siria contro Israele. Erano i giorni della violenta e rapidissima Guerra del Kippur, da cui lo Stato d’Israele uscì vittorioso ribaltando un doppio attacco a sorpresa in poco meno di tre settimane, esattamente dal 6 al 25 ottobre di 46 anni fa, e il mondo invece uscì appunto sconfitto e ridotto alla cosiddetta «austerity» dalla riduzione della produzione ed esportazione di greggio come ritorsione per l’appoggio dato dall’Occidente alla controffensiva dell’esercito con la stella di David.
OGGI LA STORIA rischia di ripetersi, ma in un mondo già devastato dai cambiamenti climatici e dal ritardo nella transizione dai combustibili fossili alle energie alternative. Invece che plastic free, siamo ancora schiavi del dio Petrolio e di chi lo possiede e ce lo vende. In questo caso a tenerci in pugno è l’Arabia Saudita, cui fa capo il 30 per cento della produzione di tutto il greggio del pianeta. Insomma, stiamo ballando sull’orlo di un’altra guerra, senza esserci procurati un paracadute che ci possa salvare dal precipizio di un’altra crisi energetica.
Le coordinate di questo disastro annunciato sono semplici da inquadrare, perché ancora una volta risiedono nel cuore di quel Medio Oriente che sembra impossibile da pacificare. Da una parte la Repubblica islamica dell’Iran, dall’altra l’Arabia Saudita. Il regime degli ayatollah contro il regno dei sauditi. Una faccenda religiosa e geopolitica difficile da districare, soprattutto per l’insipienza con cui i potenti del mondo hanno lasciato che il braccio di ferro s’incancrenisse producendo metastasi come l’Isis, di cui abbiamo subito le tragiche conseguenze.
IL PUNTO RELIGIOSO sta nella contrapposizione tra islamismo sunnita (per la precisione quello saudita è wahhabita) e sciita, che si traduce in due diverse interpretazioni della forma di Stato. Ma dietro la contrapposizione religiosa è la questione geopolitica a dettare l’agenda delle reciproche minacce e di una guerra per procura che si sta consumando nello Yemen, tra lealisti filosauditi e ribelli Huthi filoiraniani. In gioco, naturalmente non c’è il futuro della popolazione yemenita usata come carne da cannone, ma il ruolo di potenza di riferimento nell’area mediorientale.
IN GIOCO IN YEMEN C’È IL RUOLO DI POTENZA DEL MEDIO ORIENTE
L’EX PRESIDENTE statunitense Barack Obama aveva portato a casa un accordo con l’Iran che prevedeva uno stop all’escalation nucleare per scopi militari dell’Iran. Accordo smentito dal suo successore Donald Trump, il quale ha preferito schierarsi dalla parte dei sauditi (e di Israele), spaventati dalla crescente potenza bellica degli ayatollah che a loro volta hanno riavviato l’arricchimento dell’uranio nelle loro
centrali minacciando la costruzione (se non l’hanno già fatto) di un ordigno atomico.
L’ultimo atto di questo braccio di ferro è di poche settimane fa. Un attacco a sorpresa e devastante con 18 droni e 11 missili da crociera contro due impianti petroliferi sauditi, che hanno costretto Riad a dimezzare la produzione di greggio che ha cominciato a perdere 5,7 milioni di barili al giorno. Un attacco rivendicato dagli Huthi ma molto probabilmente partito da una base iraniana (i ribelli non hanno assolutamente la capacità tecnica e operativa di guidare in volo contemporaneamente una flotta di droni e missili di quel genere).
Ed eccoci alla minaccia del principe Mohammed Bin Salman rivolta al mondo occidentale: fermate l’Iran o vi lasceremo a secco di petrolio. Una minaccia da prendere sul serio, visti i precedenti dell’erede al trono degli Al Saud che non ha fatto una piega nemmeno quando è apparso evidente il suo coinvolgimento diretto nell’assassinio e nello squartamento del giornalista Jamal Khashoggi, consumato da alcune sue guardie del corpo nel consolato saudita di Istanbul.
DUNQUE, A 46 ANNI di distanza la storia rischia di ripetersi. Costringendoci ad accelerare una decisione sul nostro futuro: vogliamo dipendere ancora dal petrolio che ci ha fatto crescere avvelenando il mondo? O immaginare un futuro diverso, con energie rinnovabili e alternative, che oltre a salvare il pianeta disinneschino le cause di quella conflittualità permanente che ci minaccia? La risposta, ci piaccia o no, è quella di Greta Thunberg ai grandi della terra: «Siete rimasti senza scuse, e noi siamo rimasti senza più tempo».
VOGLIAMO DIPENDERE ANCORA DAL PETROLIO CHE CI HA AVVELENATI?