Sport - L’ossessione dei filippini per il basket
PIÙ CHE UNA PASSIONE, un’ossessione. Il legame tra il basket e i filippini è qualcosa di viscerale che va a scavare nella storia di questo popolo. Dal villaggio più remoto dell’arcipelago alla capitale: i playground sono un elemento essenziale della topografia e spuntano dappertutto, anche in luoghi improbabili come il cimitero Navotas di Manila. Il rumore sordo della palla a spicchi sul ferro arrugginito, una prece, una scarpa che striscia sul cemento, un fiore che si posa su una tomba. È il sacro che si mischia col sacro: sì, perché qui la pallacanestro è una religione il cui vangelo si predica e si manda a memoria ovunque. Giocando in ogni posto e condizione, anche a piedi nudi nelle pozzanghere.
Le Filippine sono l’unico Paese al mondo, insieme alla Lituania, dove il basket è il primo sport. Quattro filippini su dieci giocano a pallacanestro, otto su dieci lo seguono. Una mania che nasconde un paradosso: uno dei popoli con la statura più bassa in assoluto ha eletto a sport nazionale una disciplina in cui le dimensioni contano parecchio. L’altezza media nelle Filippine è 163,5 centimetri per gli uomini e 151,8 per le donne. Oltre dieci centimetri in meno rispetto agli Stati Uniti e alla Spagna, per citare due Paesi di successo nel basket. Ma come è nata questa ossessione? Il seme della palla arancione germogliò all’inizio del Novecento, quando le Filippine erano una colonia statunitense. Nella revisione del sistema scolastico lo sport diventò immediatamente un architrave importantissimo. Come ha spiegato Lou Antolihao, sociologo della National University of Singapore, il basket ebbe un ruolo importante anche nell’emancipazione delle donne, che si appassionarono subito e contribuirono alla sua diffusione capillare. Nei primi decenni del secolo scorso arrivarono pure i successi: oro nei Giochi dell’estremo oriente del 1913 e un sorprendente terzo posto nel Mondiale
LA STATURA NON È UN LIMITE. L’IDEA CHE I PICCOLI POSSANO BATTERE I GRANDI È UNA POSSIBILITÀ DI RISCATTO
del 1954, otto anni dopo la proclamazione dell’indipendenza.
Quel risultato rappresentò un volano incredibile per tutto il movimento e nel 1976 nacque la Philippine Basketball Association, la seconda lega professionistica al mondo in ordine di tempo dopo l’Nba americana. All’inizio il dualismo era tra Toyota Super Corollas, la squadra considerata dei benestanti, e Crispa Redmanizers, la squadra dei ceti più bassi. Più che dividere, però, il basket univa, perché la passione abbracciava indistintamente tutte le classi sociali. L’altezza non era considerata un limite, tutto il contrario: l’idea che i piccoli potessero battere i grandi rappresentava per molti una possibilità di riscattarsi, di sovvertire uno schema precostituito e apparentemente inscalfibile. Oggi la situazione è un po’ diversa. Nel Mondiale che si è disputato lo scorso settembre le Filippine hanno chiuso all’ultimo posto, perdendo 62 a 108 con l’Italia nella prima partita. Ma l’entusiasmo è destinato comunque a crescere ancora perché nel 2023 il torneo iridato si disputerà tra Manila, Jakarta (Indonesia) e Okinawa (Giappone).
Per toccare con mano questo entusiasmo basta farsi un giro per le città, dove le canotte delle franchigie Nba e
Partita a piedi scalzi in questa palestra nel borgo di Kruz Na Ligas, a Quezon City.
delle squadre locali sono un capo di abbigliamento diffusissimo. I campioni, invece, scarseggiano. L’unico atleta di origini filippine nel campionato Usa è Jordan Clarkson, guardia dei Cleveland Cavaliers, mentre sulla panchina dei Miami Heat siede Erik Spoelstra, nato in Illinois ma di madre filippina. Nessun giocatore con entrambi i genitori nati nell’arcipelago ha mai giocato in Nba ma all’orizzonte c’è un ragazzo che potrebbe infrangere questo tabù: si chiama Kai Sotto, gioca come centro, è figlio d’arte e a 17 anni è già alto 218 centimetri. Da marzo si è trasferito negli Stati Uniti per allenarsi e l’obiettivo dichiarato è quello di essere scelto nel draft del 2021 o del 2022. Potrebbe rivelarsi anche una straordinaria operazione commerciale: per la Nike quello delle Filippine è il terzo mercato al mondo dopo Stati Uniti e Cina.
Le pagine social dell’Nba sono invase da tifosi filippini, secondi come numero solo agli americani. Stephen Curry, Kevin Durant, Chris Paul e James Harden sono solo alcune delle stelle che hanno scatenato il delirio con la loro presenza a Manila negli ultimi anni. «La passione qui è incredibile, per me è come essere a casa senza essere a casa» ha detto Kobe Bryant durante una visita recente. Emblematica una dichiarazione del vicepresidente delle Global Partnerships Ed Winkle: «La gente non capisce che l’Nba è più popolare nelle Filippine che negli Usa. Negli Stati Uniti ci sono tante persone a cui piacciono altri sport, mentre le Filippine sono una nazione devota al basket».
L’ossessione per la pallacanestro ha riflessi anche al di fuori dei confini nazionali. In Italia i filippini rappresentano una delle comunità straniere più numerose: secondo gli ultimi dati Istat sono 168.292, quasi un terzo abita a Milano e praticamente tutti i giovani frequentano i playground cittadini. Uno dei più famosi tra gli habitués dei campetti
«LA PASSIONE È INCREDIBILE: COME ESSERE A CASA» HA DETTO KOBE BRYANT DURANTE UNA VISITA RECENTE
milanesi è Vincent Paul Ayala, 21 anni, conosciuto con il soprannome di Nano malefico. «Pioggia, neve, vento: noi giochiamo in qualsiasi condizione climatica. Ci basta una pallina di carta e un cerchio di metallo» racconta Vincent. «Sono nato nelle Filippine, vivo in Italia da quando ho cinque anni e purtroppo non torno nel mio Paese da quando ne ho otto. Uno dei ricordi più nitidi dell’ultimo viaggio è quello di un canestro piazzato proprio in mezzo alla strada, tra le macchine che sfrecciavano: non ci volevo credere».
Quando apre lo scrigno della sua passione, a Vincent si illuminano gli occhi. «Ci sono due mondi diversi: quello degli alti e quello dei bassi. Io sono a quota 160 centimetri per cui... La prima volta che sono andato a giocare al parco Sempione un ragazzo mi ha detto che ero troppo piccolo. Beh, sono capitato nella sua squadra, ho messo quattro o cinque bombe da tre punti e lui si è meravigliato. Mai giudicare dal fisico: una volta sono riuscito a fare canestro contro un ragazzo alto due metri e 15! Penso di essere uno dei più forti a Milano perché in campo non perdono. Sono cattivo, mi interessa solo vincere. In città tutti sanno chi è il Nano malefico».
I canestri spuntano dappertutto, persino nei cimiteri o a bordo strada, in mezzo alle baracche.