Qualcuno blatera ancora che «non esistono neri italiani»? Per fortuna una new wave di atleti afrodiscendenti rende orgogliosa la giovane Italia decoloniale
CORRENDO A PIEDI NUDI la maratona, e conquistando il gradino più alto del podio, l’etiope Abebe Bikila stupì il mondo alle Olimpiadi di Roma nel 1960. Fu il primo nero e il primo africano a vincere una medaglia d’oro in quell’edizione dei Giochi Olimpici, svoltisi nell’anno chiave per la liberazione dell’Africa dal giogo coloniale: ben 17 nazioni si affrancarono da Francia, Belgio e Regno Unito e la dichiarazione ONU sull’indipendenza dei popoli coloniali suggellava una nuova fase, post-coloniale ma anche neo-coloniale, nella storia del mondo. Per vincere nella notte dei Fori Imperiali Bikila passò per due volte dall’obelisco di Axum che l’Italia fascista aveva sottratto alla stessa città etiope (quella repubblicana lo restituirà nel 2005); e la seconda fu quella dello scatto decisivo. Vinse così, sotto all’arco di Costantino, proprio nella capitale del Paese che aveva invaso l’ultimo Stato libero d’Africa e che lo occupò dal 1936 al 1941 (quando gli Inglesi rimisero sul trono Hailé Selassie, l’imperatore caro ai rastafariani).
Bikila bissò poi l’impresa a Tokyo 1964 (stavolta calzando le scarpe), e consolidò il suo status di emblema del definitivo affrancamento del Sud del mondo dalla subalternità ai colonizzatori bianchi.
Oggi, a oltre 60 anni di distanza, l’Italia sembra aver rimosso gran parte del suo passato coloniale e tende a replicarne gli stereotipi. Vedi il tristemente ricorrente «non esistono neri italiani», applicato spesso agli atleti afrodiscendenti. Eppure il loro contributo è immenso, anche se la parte meschina e ipocrita dell’Italia ancora fatica a digerire tanta gioventù multietnica. L’argento (che è anche record italiano) di Mattia Furlani (cresciuto a Grottaferrata, di madre senegalese e papà italiano) nel salto in lungo ai Mondiali di Glasgow non è la riprova che ormai «sono tutti stranieri» nell’atletica tricolore, ma la conferma (rafforzata da Lorenzo Simonelli, Zaynab Dosso e altri) di un presente sempre più decoloniale, dove l’orgoglio di rappresentare l’Italia può, felicemente, dialogare con tutti i colori della pelle.