L’allenamento non dev’essere addestramento militaresco, né un coach dev’essere un sergente di ferro. La chiave non è l’autorità, ma una relazione di fiducia
SCATTI E FLESSIONI, ripetute e addominali, esercizi di resistenza, di rapidità, di tecnica. Qualunque sia la disciplina sportiva, chi allena ha il compito di preparare l’atleta a dare il meglio in gara. C’è allora chi trasforma l’allenamento in un addestramento: eseguire gli ordini, non discutere, obbedire all’autorità. Anche senza arrivare a casi drammatici di molestie e abusi (che pure sono stati denunciati in varie discipline), l’approccio autoritario nell’allenamento è tanto diffuso quanto deleterio. La sfida non è più riservata alla performance sportiva finale, sia essa un incontro sul tatami, una partita di basket o una gara d’atletica. La competizione s’allarga e l’atleta non affronta soltanto gli avversari, ma anche compagni, preparatori e coach. C’è chi, sotto una simile pressione, dà il meglio di sé, vince, diventa campione, e funge da esempio legittimante di questo tipo di addestramento: sembra quasi che il successo sportivo arrivi grazie alla durezza del coach, quando potrebbe derivare dalla resilienza dell’atleta, in grado di resistere, di migliorare, nonostante le umiliazioni di chi dovrebbe essergli alleato. E infatti, nascosti dalla fama di un vincente che trionfa, ci sono tanti altri potenziali campioni, rimasti promesse incompiute, dati anonimi delle statistiche sull’abbandono sportivo, a cui i coach hanno urlato contro, senza ottenere altro risultato che allontanarli dall’attività (e ridurne benessere e autostima). Ma la relazione tra coach e atleta è più profonda dell’addestramento basato su un vuoto rapporto d’autorità. Perché la potenzialità diventi realtà serve fiducia: dell’atleta verso chi l’allena, del coach verso chi ha allenato. Le estenuanti sessioni di allenamento non si eseguono allora per cieca obbedienza agli ordini, ma per la fiducia che si ripone nella relazione, con la consapevolezza, autentica, che lo scopo di chi allena è il miglioramento, sportivo ma in fondo anche umano, dell’atleta. E il peso delle aspettative, la pressione della competizione, si alleggerisce, finalmente, quando si capisce che il primo tifoso di chi sta in gara deve essere in panchina.