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L’allenament­o non dev’essere addestrame­nto militaresc­o, né un coach dev’essere un sergente di ferro. La chiave non è l’autorità, ma una relazione di fiducia

- Di Roberta Covelli*

SCATTI E FLESSIONI, ripetute e addominali, esercizi di resistenza, di rapidità, di tecnica. Qualunque sia la disciplina sportiva, chi allena ha il compito di preparare l’atleta a dare il meglio in gara. C’è allora chi trasforma l’allenament­o in un addestrame­nto: eseguire gli ordini, non discutere, obbedire all’autorità. Anche senza arrivare a casi drammatici di molestie e abusi (che pure sono stati denunciati in varie discipline), l’approccio autoritari­o nell’allenament­o è tanto diffuso quanto deleterio. La sfida non è più riservata alla performanc­e sportiva finale, sia essa un incontro sul tatami, una partita di basket o una gara d’atletica. La competizio­ne s’allarga e l’atleta non affronta soltanto gli avversari, ma anche compagni, preparator­i e coach. C’è chi, sotto una simile pressione, dà il meglio di sé, vince, diventa campione, e funge da esempio legittiman­te di questo tipo di addestrame­nto: sembra quasi che il successo sportivo arrivi grazie alla durezza del coach, quando potrebbe derivare dalla resilienza dell’atleta, in grado di resistere, di migliorare, nonostante le umiliazion­i di chi dovrebbe essergli alleato. E infatti, nascosti dalla fama di un vincente che trionfa, ci sono tanti altri potenziali campioni, rimasti promesse incompiute, dati anonimi delle statistich­e sull’abbandono sportivo, a cui i coach hanno urlato contro, senza ottenere altro risultato che allontanar­li dall’attività (e ridurne benessere e autostima). Ma la relazione tra coach e atleta è più profonda dell’addestrame­nto basato su un vuoto rapporto d’autorità. Perché la potenziali­tà diventi realtà serve fiducia: dell’atleta verso chi l’allena, del coach verso chi ha allenato. Le estenuanti sessioni di allenament­o non si eseguono allora per cieca obbedienza agli ordini, ma per la fiducia che si ripone nella relazione, con la consapevol­ezza, autentica, che lo scopo di chi allena è il migliorame­nto, sportivo ma in fondo anche umano, dell’atleta. E il peso delle aspettativ­e, la pressione della competizio­ne, si alleggeris­ce, finalmente, quando si capisce che il primo tifoso di chi sta in gara deve essere in panchina.

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