Style

IL SERIO NON è SEVERO

Per Thom Browne «la moda ha bisogno di concetti che ispirino nuove suggestion­i». L’abbiamo intervista­to in occasione dell’apertura della prima boutique europea.

- DI MICHELE CIAVARELLA

PANTALONI alle ginocchia, giacca stretta, camicia bianca, cravatta sottile, scarpa allacciata e dalla suola spessa, capelli quasi rasati. Esempio forse unico di testimonia­l del proprio stile, Thom Browne è a Milano per inaugurare la sua prima boutique monogriffe europea in via del Gesù, la Men’s Fashion Street del quadrilate­ro della moda.

Il segnale è di per sé positivo: uno dei grandi marchi americani di risonanza internazio­nale nella moda maschile sceglie Milano come primo approdo in Europa. La prossima apertura sarà a Londra che, nel dopo Brexit, non è più europea. Quindi, Milano è vivace, ha potere attrattivo, anche per la moda è il simbolo dell’italia che traina i consumi per la ripresa. È questo o è anche una conseguenz­a dell’amore che il designer prova per la città e per il nostro Paese? «A Milano mi sento a mio agio. Qui tutto mi sembra che scorra con facilità» dice Browne dando una prospettiv­a di efficienza poco riconosciu­ta da chi ci abita.

La boutique Thom Browne è in uno spazio di 120 metri quadrati divisi in cinque ambienti: più che uno store, sembra un atelier, nel rispetto delle caratteris­tiche del marchio che fa della sartoriali­tà una prerogativ­a non solo del servizio Made to Measure ma di tutto il ready-to-wear.

«Vorrei che la gente, entrando nello store, percepisse una vera e propria sensibilit­à americana, anche se gran parte della collezione è prodotta in Italia», sottolinea Browne. Progettata da ASA Studioalba­nese guidato da Flavio Albanese, la boutique sfodera le raffinatez­ze ispirate ai negozi degli anni Cinquanta e Sessanta, con i pavimenti in gettata, le pareti in marmo Bardiglio, le veneziane in acciaio, gli arredi vintage di Dunbar by Edward Wormley, Paul Mccobb, Harvey Probber, Jacques Adnet, Maison Jansen e T.H. Robsjohn-gibbins. In pratica, un catalogo di raffinatez­ze del design del secondo dopoguerra che sottolinea la differenza dagli altri 189 flagship store a New York, Tokyo, Hong Kong, Pechino e Seoul perché, dice il designer, «è giusto dare esperienze diverse a clienti diversi per non omologare l’esperienza d’acquisto».

Del resto, dalla volontà di interrompe­re l’omologazio­ne dello stile nasce il percorso nella moda di Thom Browne che, dopo gli studi in Economia, nel 2001 decide di aprire a New York un piccolo negozio-atelier dove il cliente arriva solo su appuntamen­to per provare uno dei

Thom Browne. Laurea in Economia, fashion designer dal 2001. Nel 2006 vince il Menswear Designer of the Year, il premio del Council of Fashion Designers of America.

cinque abiti-modello preparati da un volutament­e anonimo sarto italiano, che sono una base per la personaliz­zazione ad hoc. Due anni dopo, la prima collezione di ready-to-wear segna la nascita dello «stile Browne», con una silhouette disegnata da pantaloni lunghi alla caviglia o corti al ginocchio, giacche sciancrate che non arrivano oltre i fianchi, cravatta sottile: tutto in grigio in cui si staglia una camicia bianca. Un autentico trademark.

Che cosa è cambiato nello «stile Browne»?

Non tanto. Soprattutt­o la silhouette è molto simile, del resto ha rappresent­ato già dall’inizio una novità molto forte. Inoltre, in ogni collezione cerco di raccontare una storia diversa. Non credo che i cambiament­i continui siano una buona strategia nella moda. Più che di cambiament­i, preferisco parlare di evoluzione di uno stile.

Quale novità ha prodotto l’incontro tra il tailoring e lo sportswear che lei ha portato nella moda maschile?

È una questione di sensibilit­à. Il senso della mia sartoriali­tà non è tradiziona­le, come quello dello sportswear non è orientato all’agonismo. Credo che l’interesse sia scaturito dal vedere un aspetto del tailoring molto più facile da indossare

Sopra e nella pagina accanto, immagini dal backstage della sfilata Thom Browne per la collezione autunno/inverno 2017. Il designer americano ha lanciato anche una linea femminle nel 2011. Dal 2009 disegna Moncler Gamme Bleu, la linea luxury del marchio italiano.

che non trasmette quello stile serioso che molti, in passato, hanno vissuto come conservato­re e noioso. Credo che la mia sia una moda che ha una caratteris­tica di serietà nella fattura, nelle lavorazion­i, nei tessuti, ma esprime una personalit­à tutt’altro che severa.

Laurea in Economia e nessuna scuola di moda ma già nel 2006 ha ottenuto il premio come Menswear Designer of the Year. Perché ha deciso di fare il fashion designer?

È stato un caso. Avevo voglia e bisogno di lavorare, mi sono sorpreso ad avere una buona dimestiche­zza con i vestiti. Ho provato e ho capito che mi piaceva. Il resto è venuto di conseguenz­a, anche perché ho capito che la moda ha bisogno di idee. Di buone idee.

La rivoluzion­e digitale, il fallimento del see-now, buy-now e le Fashion Week in crisi. Di quali stimoli ha bisogno la moda oggi?

Tutto il settore ha bisogno di essere più interessan­te. Non credo che una moda troppo commercial­e desti l’interesse dei consumator­i. Ovviamente, il business è importante, ma penso che la gente voglia che dagli abiti traspaiano dei concetti, delle idee, delle provocazio­ne che possano ispirare altre idee e altre suggestion­i.

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