LE DONNE di valentina
Perfezionista, infaticabile e grande lettrice. Valentina Bellè, dopo aver conquistato Dustin Hoffman nella serie «I Medici», ora è lanciata verso il Festival di Venezia...
Nata a Verona 25 anni fa, Valentina Bellè si è fatta conoscere al grande pubblico vestendo i panni di Lucrezia Tornabuoni nella serie tv I Medici. A DESTRA: REGGISENO, ERES; CULOTTE, DIOR.
ÈTORNATA MORA. E con il colore dei capelli, che aveva tinto di biondo per interpretare Dori Ghezzi nel film dedicato al Principe
libero Fabrizio De André, ha ritrovato se stessa. «Quest’anno ho lavorato un sacco, in progetti diversissimi tra loro. E non vedo l’ora di rimettermi alla prova, perché mi sento veramente nuova! Sono cambiata tanto, non mi spaventa niente». Poi, frenando l’entusiasmo con tutta l’umiltà dei suoi 25 anni, l’attrice Valentina Bellè torna a farsi seria e si corregge: «Cioè, i ruoli troppo diversi da me mi spaventano sempre, perché la responsabilità si alza da morire. Sono arrivata a un punto in cui non prendo più sottogamba questo mestiere». Non che qualcuno l’avesse mai pensato: basta guardare l’impegno che mette anche sul set fotografico, il modo in cui storce il naso di fronte a uno scatto non proprio perfetto, per capire che per i sei ingaggi degli ultimi mesi non deve ringraziare solo i suoi begli occhi o le gambe chilometriche. «È facile fare le cose più o meno bene, ma farle veramente bene è tutta un’altra storia. Me lo dicevano in
accademia (il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, ndr) che si poteva andare sempre più a fondo, allora però non capivo…». L’ ha imparato in scena, a fianco di grandi come Dustin Hoffman, conosciuto durante le riprese della serie tv I Medici («Un’esperienza surreale. Ma se mi riguardo ora penso che avrei potuto fare di meglio») e i registi Paolo e Vittorio Taviani, che l’hanno diretta in Una questione privata.
Chi le ha insegnato di più in scena e dietro le quinte?
Luca Marinelli, senza dubbio. Una volta mi ha detto: «Sul set bisogna essere donne e uomini». Che vuol dire smettere di comportarsi da ragazzini e prendere questo mestiere con la serietà che merita. Perché io lo faccio per il piacere di farlo, non per arrivare a Hollywood o chissà dove. Io mi sento già arrivata quando sono al lavoro, quando ho un copione sotto mano, quando entro in un personaggio.
Come lavora su un ruolo e come riesce a immedesimarsi?
Chiaramente ci metto sempre qualcosa della mia esperienza, ma soprattutto osservo molto le persone. Avere una donna straordinaria come Dori Ghezzi che mi guardava sul set tutti i giorni, che mi ha persino invitato a casa sua per conoscerci, mi ha insegnato che il personaggio non sta sulla carta, respira. Ed esige rispetto.
E quando si tratta di un personaggio letterario come Fulvia, la ragazza amata da Milton nel libro di Beppe Fenoglio (trasformato in film, presto al cinema, dai fratelli Taviani) Una questione privata?
In lei ho colto un turbinio di emozioni e di pensieri, e per me Fulvia era quello. Sì era anche l’unica figlia femmina tra tanti fratelli andati in guerra, una ragazza rimasta a cavarsela nella campagna, ma quello che contava davvero era la sua solitudine, il suo bisogno di attenzioni. È stato un ruolo così delicato e pieno che è difficile raccontarlo a parole.
Quanto è selettiva nell’accettare una parte?
Anche la persona più insulsa può comunicarti qualcosa. Mi è capitato di rifiutare dei ruoli perché non mi piaceva la scrittura, o perché in quel momento sentivo di dover lavorare su altro. È importante saper scegliere, anche a costo di fare un film meno figo di un altro semplicemente perché più giusto per me.
Arriviamo ad Amori che non sanno stare al mondo (in postproduzione) dove vive una relazione omosessuale con Lucia Mascino.
Quella tra Nina, il mio personaggio, e Claudia è una storia d’amore breve ma molto intensa. Entrambe eravamo così dentro i nostri alter ego che ci siamo conosciute veramente solo alla fine delle riprese. Anche qui una storia tratta da un romanzo, scritto dalla stessa regista Francesca Comencini. È una grande lettrice?
Sì, ho appena finito Lamento di Portnoy di Philip Roth, geniale, e nella borsa ho pronto da iniziare La figlia del capitano di Aleksàndr Puškin. Devo dire però che le mie letture dipendono molto dal periodo: ci sono momenti in cui ho bisogno di alleggerire e quindi vado su romanzi più fantasiosi come quelli di Isabel Allende, altri in cui ho voglia di approfondire e mi butto su J. D. Salinger (Franny e Zooey è il mio romanzo preferito). Non potrei mai leggere Harry Potter o robe così perché avrei l’impressione di non imparare niente… Non si prenderà un po’ troppo sul serio?
Ammetto di essere una perfezionista. Se uno fa una battuta sul mio lavoro non riesco a riderci su, anzi mi arrabbio proprio perché io ci metto l’anima in quello che faccio. Questo non vuol dire che non accetti le critiche, né che non sia una persona autoironica.
Con la surreale serie Rai Sirene (in programma per il prossimo autunno) ha mostrato proprio questo suo lato divertente.
Prima di accettare ero terrorizzata: se provi a far ridere e non ride nessuno è una tragedia! Ho cercato di portare in scena la mia parte più leggera e scherzosa, e mi ha fatto un gran bene. È bello non prendersi sul serio e nella commedia puoi, specie in una pazza alla Ivan Cotroneo. Mettici poi che il mio idolo è Anna Marchesini… Mai avuto paura di restare «incastrata» in una serie tv?
Forse un po’ d’ansia: farei fatica a restare nello stesso ruolo per troppo tempo. Ho bisogno di imparare, provare, sperimentare. Il canto ad esempio, dove sto iniziando a muovere qualche piccolo passo. E il teatro, che resta un grande sogno. Ma il mio obiettivo adesso è fare questo lavoro al meglio e rimanere una persona normale, non andare fuori di testa per il successo. E riuscire a rispettare me stessa.