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Sebastian Stan: eroe per caso

- di Cristina Sarto - foto di Michael Schwartz - styling di Fabio Immediato

Scappato dalla dittatura in Romania, Sebastian Stan si è ritrovato da un giorno all’altro negli Stati Uniti. «Integrarsi è stato difficile» ammette, poi il colpo di fulmine per la recitazion­e: «Lì mi sono sentito finalmente a mio agio. E ho capito che cosa fare del mio futuro». Altra strada in salita, passando per la tv («Gossip girl») e il teatro. Fino al successo nell’universo cinematogr­afico Marvel. Lui che i fumetti da bambino nemmeno sapeva cosa fossero...

IL SUO MANTRA è racchiuso in una frase del fotografo d’avanguardi­a William Eggleston: «Sono in guerra contro l’ovvio». Sia sincero Sebastian Stan: l’ha postata su Instagram perché fa figo? «No, ci credo davvero. Non mi fido mai di ciò che appare scontato. Una scena da girare, un progetto a cui dire di sì: a livello artistico raramente la scelta più sicura è quella giusta. A volte è così anche nella vita, perciò mi sforzo sempre di guardare le cose in modo diverso». Anche la location dell’incontro è fuori dal comune: un lussuoso appartamen­to in uno dei grattaciel­i storici di New York, con l’attore 36enne di un metro e 80 abbondante seduto su un letto per bambini.

Sarà che è un periodo ricco di prime volte. Negli ultimi tempi Stan ha recitato in ben due cortometra­ggi con un ruolo da assoluto protagonis­ta. Il primo è We have always lived in the castle, ispirato al celebre romanzo Abbiamo sempre vissuto nel castello di Shirley Jackson del 1922. «Una storia torbida, con personaggi borderline, alla David Lynch. Ho letto il libro e me ne sono innamorato, ora speriamo che il film esca…». Poi c’è The last full measure (anch’esso in post produzione), che racconta la battaglia (vera) del giovane investigat­ore Scott Huffman per convincere il Congresso americano a concedere la medaglia d’onore all’eroe del Vietnam William Pitsenbarg­er. Al fianco di Stan, ma dopo di lui nei titoli di coda, grandi leoni di Hollywood come Samuel L. Jackson, Christophe­r Plummer e Peter Fonda. È il nuovo che avanza, e chissà l’effetto che fa. «Li ammiro da sempre, è stato fantastico lavorarci insieme» ammette lui. «Io ero il protagonis­ta, ma sono stati loro a guidare me. Li ho osservati in modo maniacale e tempestati di domande, anche se non è stato facile entrare in confidenza. Chi si sentiva fuori posto ero io. Una lezione impagabile: ho sempre pensato che ognuno di noi dia il meglio di sé quando è circondato da persone più brave». Le risposte arrivano lente, calibrate. Pare andarle a cercare prima con lo sguardo, azzurrissi­mo, fisso in un punto lontano della moquette colorata. «Ero al college quando ho guardato per la prima volta le pellicole degli anni Settanta». Una su tutte: Easy Rider con Peter Fonda e Dennis Hopper. «Un film che ha catturato il polso di una generazion­e, l’energia che scorreva in America. Quando una storia stabilisce una connession­e così profonda, viscerale, la gente non se lo dimentica più. Ma di opere altrettant­o potenti ne abbiamo viste anche di recente, penso a Scappa:

get out o Black Panther». Il suo mito però resta Jack Nicholson: «Non si è mai nascosto dietro ai personaggi, nemmeno i più bizzarri. La sua recitazion­e è stata una dichiarazi­one di onestà: “Non sono perfetto, ma sono qui. E voglio divertirmi”. Ecco, non dovremmo mai smettere di divertirci. Anche in questo business così difficile».

Difficile per Stan lo è stato di sicuro, soprattutt­o nei primi tempi di provini andati a vuoto. «Anni durissimi, dolorosi» ricorda l’attore. «Ma se mi guardo indietro, ci trovo anche qualcosa di fantastico: audizioni senza freni, libertà di sperimenta­re. Lo spirito era: “Prendi un lavoro, qualsiasi lavoro”. E quando capitava, che gratitudin­e!». Solo nel 2007 il pubblico si è accorto di questo ragazzo dal viso pulito, guance sbarbate e capello corto, grazie al teen-drama Gossip girl. L’anno dopo anche gli addetti ai lavori restano folgorati dal suo debutto a Broadway in Talk Radio.

«I PRIMI ANNI SONO STATI DURISSIMI. LO SPIRITO ERA ACCETTARE QUALSIASI LAVORO. E CON GRATITUDIN­E!»

«IL MITO DEL SUPEREROE è RADICATO NEL DNA DI TUTTI»

Ma la vera svolta arriva con il blockbuste­r del 2011 Captain America – Il primo vendicator­e in cui, smessi finalmente i panni del comprimari­o, si trasforma in una star: Bucky Barnes, l’amico del patriottic­o supereroe Marvel.

«E pensare che da piccolo i fumetti non sapevo neanche che cosa fossero» racconta. «Li ho scoperti quando sono venuto in America, a 12 anni, ma a quel punto era tardi per appassiona­rsi. Ho iniziato a leggerli solo nel momento in cui ho ottenuto la parte». Non farà mica lo snob adesso? «Certo che no. Uno pensa che sia solo intratteni­mento, invece questi film contengono messaggi più profondi. Il mito del supereroe è radicato nel dna di ognuno di noi. Risvegliar­lo ci fa sentire migliori, ci ricorda il vero scopo della vita». Senza contare che l’universo cinematogr­afico Marvel è il franchise più redditizio di sempre, con una nuova puntata degli Avengers in arrivo nel 2019. Tra loro ci sarà anche il Soldato d’inverno, lo spietato assassino rinato dalle ceneri di Bucky Barnes: per Stan si tratta dell’episodio numero cinque della saga.

Cosa se ne fa di tutto quel che guadagna? «Viaggio. Compro valanghe di film su Apple tv. Ordino cibo da asporto e vado nei ristoranti perché non so cucinare. Cedo spesso di fronte alle giacche di Saint Laurent, maledizion­e!» confessa. «Adesso non scriva che sono un esperto di moda. Qualche volta mi invitano a eventi bellissimi. Mi riconosco in brand come Prada e Hugo Boss, ma ho una persona che mi aiuta a scegliere. Da solo mi metto al massimo jeans e T-shirt». Altro da aggiungere sul suo estratto conto? «Spendo moltissimo in lezioni di recitazion­e: ogni volta che mi affidano un ruolo, mi rimetto a studiare. Perché in questo lavoro o continui a crescere o non reggi gli alti e bassi». Sarebbero? «Ciò che ti rende famoso allo stesso tempo ti fa sentire solo. Parti, stai via otto mesi, cerchi di portarti un pezzo di casa con te e appena ti stabilizzi devi ripartire ancora».

Ma Sebastian Stan è pur sempre il bambino scappato dalla Romania a otto anni, dopo la caduta del dittatore Nicolae Ceaus¸escu, «tempi difficili, pieni di cambiament­i». Lo stesso che solo quattro anni dopo, da Vienna, dove la madre lavorava come pianista, si è imbarcato su un aereo senza ritorno. Destinazio­ne: Nyack, Stato di New York. «I primi tempi qui sono stati duri, ci ho messo un anno per integrarmi. Non parlavo bene la lingua e avevo un accento pesantissi­mo. La gente mi guardava con sospetto. La mia vita è cambiata a 15 anni, quando sono andato a un famoso camp estivo di recitazion­e. Lì mi sono sentito finalmente a mio agio. Tutto ha acquistato un senso e ho capito che cosa fare del mio futuro» ricorda. A quel punto, il ragazzo era pronto a prendere il volo. Un po’ come quei supereroi che partono per la battaglia e quando pensi di averli persi, ritornano. «Sono nomade dentro e la considero una fortuna: quasi mi sento più a casa quando mi sposto di continuo. Ma per qualche ragione, mi fa paura l’idea di lasciare New York. Posso starne lontano, resistere alla nostalgia, ma ho sempre bisogno di avere quattro mura in questa città dove tornare a rifugiarmi».

«LA MIA VITA è CAMBIATA A 15 ANNI, A UN CAMPO ESTIVO DI RECITAZION­E. LÌ TUTTO HA ACQUISTATO FINALMENTE UN SENSO»

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 ??  ?? SI RINGRAZIA: APPARTAMEN­TO 2A 190 EAST 72ND STREET; GROOMING: KUMI CRAIG USING LA MER PER STARWORKS ARTISTS Stan tornerà presto al cinema con il quinto capitolo della saga degli Avengers nei panni del Soldato d’inverno, lo spietato assassino rinato dalle ceneri di Bucky Barnes.
SI RINGRAZIA: APPARTAMEN­TO 2A 190 EAST 72ND STREET; GROOMING: KUMI CRAIG USING LA MER PER STARWORKS ARTISTS Stan tornerà presto al cinema con il quinto capitolo della saga degli Avengers nei panni del Soldato d’inverno, lo spietato assassino rinato dalle ceneri di Bucky Barnes.

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