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Simone Moro, l’ultimo esplorator­e

RAGGIUNGER­E le cime più alte del mondo tenendo sempre i piedi ben piantati a terra. È il paradosso di Simone Moro, l’uomo che ha ridato vita all’alpinismo invernale conquistan­do quattro «otto mila» ancora inviolati. «Le mie imprese sono la conferma che è

- di Giacomo Fasola - foto di Barbara Oizmud

SUL BIGLIETTO DA VISITA di Simone Moro c’è scritto: alpinista, pilota di elicotteri, esplorator­e. «Mi concentro sul come e non sul cosa scalare: è il come che ti fa un esplorator­e» spiega. Nato a Bergamo come Walter Bonatti, Moro è cresciuto con il poster di Reinhold Messner in cameretta. Sapeva quello che voleva fare da grande e l’ha fatto, mettendo insieme una quantità di record e imprese che l’hanno proiettato nell’olimpo degli alpinisti. Ha scalato otto dei 14 otto mila esistenti al mondo, ha ricevuto la Medaglia al valore civile per il salvataggi­o di Tom Moores sul Lhotse, ma soprattutt­o ha riscritto la storia dell’alpinismo invernale. In 12 anni Moro è riuscito a realizzare quattro «prime»: Shisha Pangma (8.027 metri), Makalu (8.463), Gasherbrum II (8.035), Nanga Parbat (8.126). Prima di lui nessuno le aveva scalate nei mesi freddi, e ora l’unico che rimane è il K2. «Spero che qualcuno lo faccia prima di me, così mi tolgo il problema» dice l’alpinista che il 14 ottobre sarà ospite del Festival dello Sport organizzat­o dalla Gazzetta.

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