Simone Moro, l’ultimo esploratore
RAGGIUNGERE le cime più alte del mondo tenendo sempre i piedi ben piantati a terra. È il paradosso di Simone Moro, l’uomo che ha ridato vita all’alpinismo invernale conquistando quattro «otto mila» ancora inviolati. «Le mie imprese sono la conferma che è
SUL BIGLIETTO DA VISITA di Simone Moro c’è scritto: alpinista, pilota di elicotteri, esploratore. «Mi concentro sul come e non sul cosa scalare: è il come che ti fa un esploratore» spiega. Nato a Bergamo come Walter Bonatti, Moro è cresciuto con il poster di Reinhold Messner in cameretta. Sapeva quello che voleva fare da grande e l’ha fatto, mettendo insieme una quantità di record e imprese che l’hanno proiettato nell’olimpo degli alpinisti. Ha scalato otto dei 14 otto mila esistenti al mondo, ha ricevuto la Medaglia al valore civile per il salvataggio di Tom Moores sul Lhotse, ma soprattutto ha riscritto la storia dell’alpinismo invernale. In 12 anni Moro è riuscito a realizzare quattro «prime»: Shisha Pangma (8.027 metri), Makalu (8.463), Gasherbrum II (8.035), Nanga Parbat (8.126). Prima di lui nessuno le aveva scalate nei mesi freddi, e ora l’unico che rimane è il K2. «Spero che qualcuno lo faccia prima di me, così mi tolgo il problema» dice l’alpinista che il 14 ottobre sarà ospite del Festival dello Sport organizzato dalla Gazzetta.