SULLA PELLE HO SCRITTO “TIENI DURO”
DEMI LOVATO LA SHOWGIRL PIÙ MULTITASKING DELLA GENERAZIONE DISNEY, TRA FILM E TOUR, SCRIVE CANZONI. E PRODUCE DOCUMENTARI PER AIUTARE SE STESSA E I FAN: «LA VOCE NON MI SERVE SOLO PER CANTARE»
Che ci faceva Demi Lovato, cantante e attrice della scuderia Disney, alle Nazioni Unite con un gruppetto di Puffi e di colleghi attori che li doppiano? È andata a lanciare la campagna #PiccoliPuffiGrandiObiettivi, il 18 marzo scorso, per incoraggiare i giovani di tutto il mondo a lottare contro la povertà e rispettare gli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Onu. Mossa pubblicitaria per il film I Puffi -Viaggio nella foresta segreta, appena uscito nelle sale, di cui Demi è una delle voci americane? Non proprio e non solo. Demetria Devonne Lovato è veramente diversa da qualunque altra popstar. È fragile, ma ha fatto delle sue debolezze un cavallo di battaglia. Stessa generazione di Miley Cyrus e Selena Gomez (24enni come lei), Demi è quella che più ha sofferto ma, anziché insabbiare i problemi di depressione e droga, ne ha parlato apertamente per rincuorare e sensibilizzare i fan più giovani. Ha avuto il coraggio di aprirsi anche sul ricovero in rehab e sul bipolarismo, reinventando la sua carriera e spendendosi su più fronti. Risultato: mentre al cinema (negli Usa) dà voce a Puffetta, produce un documentario sulla malattia mentale (Beyond Silence) e continua ovviamente a cantare (performance più recente, nel singolo No Promises dei Cheat Codes). Nella colonna sonora di I Puffi - Viaggio nella foresta segreta non c’è nemmeno una canzone in cui canta lei: i suoi fan di sempre non ci saranno rimasti male? «No, quelli che mi conoscono bene sanno che non mi piace confondere le cose: non ho voluto fare la “cantante in prestito” ma concentrami sul lavoro di attrice. E sanno anche che non amo associare il mio nome a qualcosa di cui non sono convinta».
Quanto c’è di suo nel personaggio?
«Il regista Kelly Asbury mi ha presentato il film come un viaggio avventuroso in una foresta simile ad altri luoghi fantastici, da Pandora di Avatar al paese delle meraviglie di Alice. Ma io volevo soprattutto assicurarmi che Puffetta fosse un modello femminile positivo».
Pensa di somigliarle?
«All’inizio della storia si tormenta sulla sua identità: è diversa dagli altri Puffi, a cominciare dal nome che sembra solo un diminutivo o un vezzeggiativo. Poi invece rivela doti da leader. In questo senso mi ci riconosco, perché io so essere forte, curiosa e anche decisionista. E poi mi è piaciuta una parte di questa nuova storia dei Puffi che ho trovato modernissima: si scopre un nuovo villaggio, abitato solo da donne, una sorta di tribù di amazzoni. E così Puffetta sperimenta anche il valore della sorellanza (nella versione originale, la capo-villlaggio ha la voce di Julia Roberts, ndr)».
C’è una donna che l’ha ispirata?
«Mia madre Dianna. È stata una cheerleader della squadra di football dei Dallas Cowboys, poi è diventata una cantante country. E da lei, credo, ho ereditato il talento e la creatività. Da piccolina però volevo essere come Shirley Temple».
Se lo ricorda ancora il primo provino che ha fatto?
«Eccome. Avevo cinque anni, era per lo show tivù Barney & Friends, col Tirannosauro Rex color viola. Fui scartata perché non sapevo ancora leggere e io mi disperavo: a confronto di Shirley Temple, che aveva debuttato a tre anni, mi sentivo già troppo grande. Ma pochi anni dopo, a nove, ci riprovai e mi presero. Fra le 1.400 aspiranti capitai in fila con Selena Gomez. Da allora siamo diventate amicissime».
Le sue fan si sono autobattezzate Lovatics: le piace?
«Non avrei saputo trovare un nome più azzeccato! Forse perché non mi ritengo così spiritosa. Non mi sentivo neanche adatta alla commedia. Quando la Disney mi ha voluta, la più sorpresa sono stata proprio io».
C’è qualcosa che le piace dell’essere famosa?
«Avere un pubblico di aficionados che mi seguono. È grazie a questo che, l’anno scorso con Nick Jonas, abbiamo portato il nostro Future Now
Tour in 44 città del mondo. Ma non dimentico che la mia voce è un regalo di Dio e sarebbe egoista usarla soltanto per cantare».
Per questo ha sempre parlato apertamente dei suoi problemi?
«Sì. Molti mi chiedono quando scri- verò la mia autobiografia. Qualche anno fa ho pubblicato una raccolta di pensieri con l’idea che ogni lettore potesse trovarci il suo mantra. E l’ho intitolata Staying Strong, quasi come il mio, di mantra, che è Stay
Strong, tieni duro. Sono le parole che ho tatuato sui polsi quando sono uscita dal rehab (“stay” sul sinistro, “strong” sul destro, ndr). È un’esortazione che rivolgo a me stessa per non rientrare mai più nel tunnel dal quale sono uscita. Sono stata anche autolesionista, anni fa, mi procuravo dei tagli, e voglio ricordarmelo sempre nel caso mi tornasse di nuovo qualche impulso autodistruttivo».
Stay Strong, del 2012, è anche il titolo di un documentario. Ora ne ha prodotto un altro sulla malattia mentale, Beyond Silence. Altri progetti?
«È presto per parlarne, ma sto scrivendo qualcosa di diverso dalle solite canzoni. E mi piacerebbe fare la regista, un giorno.Vedremo».
È vero che c’è anche un ramo italiano, oltre a quello messicano, nel suo albero genealogico? Così dice Wikipedia...
«Ma lei crede ancora a quello che trova scritto su Internet? Io non ho neppure una goccia di sangue italiano, mi dispiace. Si deve accontentare di Joe Manganiello, che ha doppiato il puffo Forzuto...».
Ho fatto il primo provino a cinque anni per una serie tivù. Ero molto triste perché non mi presero. Mi sentivo già troppo “vecchia” rispetto al mio idolo, Shirley Temple