Giovanni Falcone
PALERMO, 30 APRILE 1982
Non si può spiegare la disperazione che si prova a calpestare il sangue dei propri amici, il senso di scoraggiamento che io, Ninni (Cassarà, commissario di Polizia,
ndr) e Rocco (Chinnici, magistrato, ndr) proviamo davanti al corpo straziato di Pio La Torre, ucciso, con il suo autista Rosario di Salvo, per aver pestato i piedi a Cosa Nostra. Boris Giuliano (capo della Mobile, ucciso nel 1979, ndr), Emanuele Basile (capitano dei Carabinieri, 4 maggio 1980, ndr), Gaetano Costa (procuratore, 6 agosto 1980, ndr), e ora Pio LaTorre: a questo è ridotta la mia povera città, a una conta infinita dei suoi morti. Ma se la mafia pensa di aver vinto, si sbaglia di grosso, perché Palermo è stanca di subire. Cocciuto, allenato alla lotta e con una volontà di ferro: così mi hanno cresciuto i miei genitori, insegnandomi a lavorare sodo, a non piegare la testa di fronte a nessuno. Lo capirono subito tutti, quando arrivai al Tribunale di Palermo, che la musica era cambiata. Rispetto ai magistrati vecchio stile, chini a leggere carte di cui nulla capiscono o vogliono sapere, io sono una scheggia impazzita che va fermata e isolata.
MALDICENZE E INVIDIE
«Ma chi si crede di essere questo giudice sceriffo, vuole arrestare tutta l’umanità? Non lo sa che la mafia non esiste, che è solo un’invenzione della stampa?» dicono accusandomi delle peggiori nefandezze.Quando Rocco Chinnici mi chiamò a lavorare con lui, gli “consigliarono” di affidarmi solo casi semplici, perché i giudici istruttori “meno scoprono meglio è”. E quando cominciai a occuparmi dei collegamenti tra la mafia siciliana e quella americana, chiedendo alle banche degli accertamenti patrimoniali, mi accusarono di voler distruggere l’economia dell’isola. So che la mia vita è appesa a un filo, che io, Ninni e Rocco abbiamo un conto in sospeso che prima o poi Cosa Nostra vorrà saldare, ma non possiamo darla vinta alla paura.Alla fine, ciò che conta davvero sono le idee, e quelle nessuna carica di tritolo le potrà fermare.