Sam Shepard
Né io né Jessica (Lange, ndr) amiamo la mondanità, ma questa è Hollywood, e i bagni di folla sono un dazio che tocca pagare. Del resto Jessica l’ho conosciuta mentre interpretava un’attrice diventata pazza a furia di combattere le regole dello star system (Frances, 1982, ndr). E io sono la pecora nera di Hollywood, il terrore dei giornalisti da quando un’inviata del
Guardian mi domandò quanto tempo avevamo per l’intervista e io risposi: «Dipende dalle domande!». Il peggio è quando mi chiedono il significato dei miei lavori. Non me n’è mai fregato nulla della trama, ciò che mi importa è suscitare emozioni. La fine del sogno americano, personaggi malinconici impigliati in un passato dal quale è impossibile staccarsi perché te lo porti nel sangue: è di questo che parlano i miei drammi, se proprio dovete trovarci una trama, e nessuno meglio di me sa cosa voglia dire convivere con un passato ingombrante.
DESTINATO A ESSERE INCOMPRESO
Per fuggire dagli scatti d’ira di mio padre ogni volta che si attaccava alla bottiglia, me ne andai a NewYork giovanissimo, mantenendomi con i lavori più umili, finché un giorno un produttore teatrale mi vide fermare un taxi saltando sul tettuccio e mi consigliò di riversare sulla scena la follia che mi portavo dentro. Pure Hollywood mi notò, offrendomi un futuro di attore, anche se la cosa più interessante del cinema sono le lunghe pause durante le quali posso scrivere le mie cose destinate a restare incomprese. «Insomma signor Shepard, che messaggio lanciano le sue opere?» non mancano mai di chiedermi tutti, e la mia risposta è sempre la stessa: «Non cercate un messaggio: l’unica cosa che desidero è che usciate dal teatro sapendone meno di quando siete entrati».