Diana Spencer
LIECHTENSTEIN, 9 GENNAIO 1984
La nostra prima vacanza sulla neve da marito e moglie, e mentre la gente ci guarda incuriosita, io faccio del mio meglio per sembrare felice, per nascondere, sotto il bianco accecante della neve, il buio che ho nel cuore. Eppure lo sono stata, felice, prima di rendermi conto che il cuore di mio marito era di un’altra da sempre, ma che il protocollo di corte gli imponeva una moglie “bella e illibata”, la principessa perfetta per una fiaba perfetta. «Certo che la amo, qualunque cosa significhi amare…» rispose Carlo ai giornalisti che ci intervistavano dopo il nostro fidanzamento ufficiale, e già allora capii che non ci sarebbe stato nessun “E vissero felici e contenti…” nella favola che mi era stata promessa.Avrei voluto mandare tutto a monte quando, due giorni prima del matrimonio, scovai un braccialetto d’oro con le iniziali Fe G (Fred e Gladys, i soprannomi di Carlo e Camilla, ndr) nascosto in un cassetto, ma poi me ne mancò il coraggio, sapendo che il mondo intero aspettava le nozze del secolo e i nostri volti erano stampati persino sulle tazze del tè.
SONO STANCA DI FINGERE
Una maestra d’asilo diventata di colpo principessa di Galles: era davvero troppo per una vita sola, troppo per non sentire un groppo in gola mentre, quel 29 luglio di tre anni fa, percorsi la navata della Cattedrale di St. Paul con il mio strascico di sette metri. C’era anche Camilla tra gli invitati, ed è sempre stata tra noi, con i bigliettini affettuosi mandati a Carlo, gli incontri clandestini, le telefonate notturne. Le ho tentate tutte per attirare l’attenzione di mio marito, ho urlato, implorato, tentato il suicidio, girato il mondo per stargli accanto, ma nell’unico luogo in cui avrei voluto essere, il suo cuore, non sono mai riuscita a entrare. «Sorridi, non fare scene da marmocchia viziata» sembrano ripetermi le occhiatacce di Carlo, ma io sono stanca di fingere.Voglio tornare a essere me stessa, una ragazza semplice che ha solo bisogno di essere amata, qualunque cosa significhi amare.