VI RACCONTO LE MIE RADICI A YARMOUK
IL MONDO L’HA CONOSCIUTO PER UNA FOTO: ERA SEDUTO AL PIANOFORTE TRA LE MACERIE DI DAMASCO. ORA AEHAM AHMAD VIVE E SUONA IN GERMANIA. E RACCONTA LA SUA VITA IN UN LIBRO
YYarmouk è un quartiere di Damasco, in Siria, teatro di guerra civile dal 2013. Qui nasce 29 anni fa Aeham Ahmad: il padre lo educa alla musica, lui gira per le strade del suo quartiere con un pianoforte caricato su un carretto. Le immagini di quei concerti improvvisati diventano virali sui social. Nel 2015 Aeham fugge in Germania, inizia a esibirsi su veri palchi e ora racconta la sua vita in un libro, Il pianista di Yarmouk (La Nave di Teseo, € 20): l’infanzia in una Siria ancora in pace, le prime rivolte, il conflitto che esplode. E poi il lungo e pericoloso viaggio verso la salvezza. Com’era il suo quartiere prima che scoppiasse la guerra? «Penso al canto di un passerotto al mattino, al profumo di gelsomino, a mio padre che suona il violino». Nel libro racconta anche i primi talent arabi. Le piacevano? «La musica era tremenda. E sembravano dire: “Puoi fare quello che vuoi, basta che non ti occupi di politica e che non critichi il governo”». Il mondo l’ha conosciuta attraverso una foto: lei al piano in mezzo alle macerie… «Non è stata pensata ad hoc. Niraz, l’autore dello scatto, doveva tenerla per sé e invece l’ha venduta». Poteva essere pericoloso per lei? «Ci mettevo la faccia. Oggi posso dire che mi ha aiutato, ma allora sì, mi sentivo in pericolo». Cosa prova riguardando quella foto? «È un’immagine triste. Ero solo.Tre giorni prima avevo amici che cantavano con me, ma la paura di morire sotto le bombe li aveva allontanati». I suoi genitori sono rifugiati palestinesi, lei è un rifugiato in Germania. Dove sente le sue origini? «A Yarmouk. Sul mio documento tedesco alla voce “Paese d’origine” ci sono tre x. Senza un passaporto, era un po’ come se non venissi da nessuna parte». Chi è rimasto dei suoi parenti in Siria? «Mio padre e mia madre: vivono in un altro quartiere di Damasco perché Yarmouk è blindato sotto il controllo dell’Isis». Ha superato il senso di colpa per averli lasciati lì? «Scrivere il libro mi ha aiutato. Sto anche andando da uno psicologo perché è come se nella mia mente ci fosse una guerra mondiale. Ma non sono tranquillo: quello che faccio è pericoloso. L’Isis è ovunque. Non voglio pensarci».