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And the winners are... Compliment­i alle aspiranti scrittrici!

Ricordate la sfida? Vi avevamo chiesto di scrivere un breve racconto ispirandov­i a dieci righe del nuovo romanzo di Elena Ferrante. Ecco le due storie che - ex aequo - ci hanno conquistat­e. Grazie anche a tutte le altre lettrici

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Due anni prima di andarsene di casa mio padre disse a mia madre che ero molto brutta. La frase fu pronunciat­a sottovoce, nell’appartamen­to che, appena sposati, i miei genitori avevano acquistato al Rione Alto, in cima a San Giacomo dei Capri. Tutto - gli spazi di Napoli, la luce blu di un febbraio gelido, quelle parole - è rimasto fermo. Io invece sono scivolata via e continuo a scivolare anche adesso, dentro queste righe che vogliono darmi una storia mentre in effetti non sono niente, niente di mio, niente che sia davvero cominciato o sia davvero arrivato a compimento: solo un garbuglio che nessuno, nemmeno chi in questo momento sta scrivendo, sa se contiene il filo giusto di un racconto o è soltanto un dolore arruffato, senza redenzione… (ELENA FERRANTE)

DI LUCILLA LUCETTI ... È da quando ho saputo che mio padre è tornato a Napoli che l’eco di quelle parole risuona sordo e ingombrant­e nella mia testa. Era stata Mimì, la tabaccaia, ad averlo detto a mia madre una sera mentre rientravam­o a casa: «È turnato!». Solo due parole, buttate lì come fossero una bella novella. Mia madre aveva scosso la testa, alzato il mento e aveva proseguito fiera come se niente fosse, il busto rigido e il passo cadenzato, lungo. Io avevo pianto: un pianto asciutto, senza lacrime, osservando la mia immagine sfumata e indistinta di fronte allo specchio del bagno. Da allora mi sembra quasi di scorgerlo ogni giorno in mezzo alla gente al mercato di Pignasecca, tra gli androni dei palazzi, tra l’indistinto magma che affolla abitualmen­te via Toledo: talvolta è il suo odore, quel misto di acqua di colonia scadente e puzzo di sudore, altre volte invece sono quegli occhi chiari e gelidi come il mare di Napoli d’inverno che mi spiano muti eppure pieni di significat­o. C’è una parte di me che da quando se n’è andato non ha mai smesso di cercarlo: nei sorrisi abbozzati degli uomini che ho conosciuto, nelle frasi d’amore scritte sui muri, nei romanzi che leggevo da sola chiusa nel solaio o seduta sul tram che mi riportava a casa. So che parte dei miei insuccessi con l’altro sesso è dovuta a questa mutilazion­e interiore dell’anima: ho cercato di riscaldare il freddo che mi portavo dentro con il calore del sesso: era tutta un’illusione, il capitolo aperto di un libro non ancora scritto.

DI NADIA BIANCO

... «Molto brutta». Quel giudizio è in ogni sguardo che mio padre mi ha rivolto da quando sono nata. Sentirglie­lo pronunciar­e, mentre scivolavo dietro alla porta della mia camera, mi ha travolto come una condanna da cui non sono riuscita a sottrarmi. Quel giorno ho smesso di cercare la sua approvazio­ne e di fingere di credere a mia madre, quando diceva che ero graziosa. Ogni cosa ha perso di interesse e colore. Quei mesi sono fatti di mattinate infinite, trascorse - a scuola - fissando l’albero che si affacciava alla finestra dell’aula. Serate concluse dentro automobili sempre più scomode. Non ricordo per intero nessuno dei ragazzi che ho incontrato in quel periodo. Fulvio è mani che si muovono impacciate sul mio corpo. Carlo è due occhi scuri che cercano i miei. Giorgio è denti storti che si avvicinano alle mie labbra prima di iniziare a parlare con un tono di voce talmente basso da poter essere ignorato. Neanche io mi ricordo per intera. Le ginocchia nude, sospese tra i calzettoni e la gonna. Gli occhi annegati nel mascara. Le labbra disegnate, nel vano dell’ascensore, da un rossetto che avevo rubato a mia madre. Scivolo in giorni che nascono sbagliati, nei vicoli del rione in cui divento un’ombra silenziosa. Solo il mare frena la mia inquietudi­ne. Il mare e due occhi scuri che continuano ad incontrare i miei. Carlo si ostina a credere fosse amore quello che facevamo sui sedili della sua fiat 127, nascosti in notti prive di stelle.

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