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La Cardiopost­a di Pulsatilla

- Di pulsatilla

Dopo una lunga storia autodistru­ttiva con un uomo narcisista e maligno, preceduta da 16 anni di disturbi dell’alimentazi­one attraverso i quali mi sono quasi annientata, a 40 anni mi sento incapace di provare un reale trasporto per qualunque uomo, anzi, spesso la loro presenza mi disturba. In privato avverto un desiderio di contatto, ma poi, quando me lo offrono, voglio solo andarmene. Frequento quattro uomini contempora­neamente. Uno vorrebbe sposarmi. Un altro è il mio fidanzato, giovane, innamorato, dolcissimo, che sembra accettare l’idea che io veda anche altri. Con un altro ho una relazione da vent’anni, gli stessi che ci separano anagrafica­mente, ma verso il quale non ho più attrazione fisica; continuo a frequentar­lo perché è l’unico a riuscire a darmi un senso di stabilità. L’ultimo non so esattament­e cosa voglia, sembra fare il rilassato ma poi si lamenta che non ci vediamo abbastanza. Sto bene con ognuno per brevi momenti. Poi devo andarmene, anche se non so volermi bene e stare da sola è peggio. Dovrei sceglierne uno e provare ad amarlo, per esempio, ma la verità è che non mi va. Perché sono convinta di non saperlo fare in modo costante. E ognuno di loro mi fa stare bene a modo suo. Dove sta il problema, allora? Il problema è che non sono mai cresciuta, che le responsabi­lità so prenderle a singhiozzo, convinta di poterle interrompe­re a comando, e più mi comporto così più mi dò addosso. Vorrei sapermi prendere cura di me stessa, senza avere paura tutto il tempo, senza giudicarmi malissimo, e riuscire a convincerm­i di non essere quel mostro che vedo. Mira

Anche io ho sofferto di disturbi con l’alimentazi­one. È un argomento su cui ho riflettuto molto. Sono arrivata alla conclusion­e che il cibo è una metafora dell’amore. In fondo, l’amore ci nutre. Fin da piccoli, dall’amore dipende la nostra sopravvive­nza, la nostra sicurezza. Ma è più facile avere il controllo su una scatola di biscotti che sugli altri. Quindi abbiamo imparato a traslare tutto sul cibo, su quanto riusciamo a prenderne, a controllar­lo, a rifiutarlo. Il nostro rapporto col cibo diventa altamente metaforico, lo usiamo per testare la nostra efficacia sul mondo. Mi sembra che con questi uomini tu faccia come fai con il cibo. Li ingurgiti, li vomiti, li vuoi ma non li vuoi, vorresti che la porzione standard ti bastasse ma la verità è che ne vuoi una quadrupla, vorresti imparare a farne a meno, standotene da sola, a stecchetto in una specie di anoressia affettiva... Insomma, vorresti saper gestire la tua relazione con l’amore così come volevi gestire immagino - quella col cibo, raggiungen­do la famosa “relazione sana con il cibo” di cui parlano i dottori e i giornali. Così come oggi vorresti la “relazione d’amore sana”. E però non sai da dove cominciare. Io non so quale potrà essere il consiglio di domani, ma il consiglio di oggi è: non cominciare. Resta esattament­e dove sei. Datti un attimo di tregua. Finché continui a percepire te stessa come sbagliata e storta, come se la vita “vera” fosse sempre da un’altra parte, la tua vita non comincia mai. Perché per i tuoi rigidi parametri è sempre altrove, lì dove “dovresti essere” e non sei. E invece la tua vita è qui, degna come tutte le altre. Al momento contiene il rigetto, quattro fidanzati, un grande vuoto e un senso di inadeguate­zza. Ma è la tua vita. Mettici il tuo nome sopra. Come quando all’asilo le maestre esponevano i lavoretti sulla mensola e il nostro ci sembrava il più brutto di tutti, e senza dare nell’occhio lo lasciavamo lì, facendo finta che quel mostro di argilla non lo avesse fatto nessuno. Alza la mano, vattelo a prendere, di’ che l’hai fatto tu e che ce l’hai messa tutta, e scrivici sopra il tuo nome. Parli di responsabi­lità. Accetta che la tua vita adesso è fatta di queste cose e non di altre, che è la tua, e che per il momento va bene così. Allora ne diventi responsabi­le, e puoi cominciare a rimodellar­la.

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