Storia vera La nostra idea per tornare al lavoro
Il settore della ristorazione soffre. Martina Miccione ci mette coraggio e organizza la sua resistenza. Obiettivo: riaprire, facendo affidamento su qualche trovata e sulla clientela
Ci sono locali che ti fanno sentire subito a casa. Ordini qualcosa, ti siedi e puoi stare lì ore, a lavorare con il portatile o a chiacchierare, senza che nessuno ti guardi storto se occupi il tavolo più dello stretto necessario. Uno di questi locali è Tipografia alimentare, bistrot milanese minimal e molto affascinante, che si affaccia sul Naviglio Martesana, fondato tre anni fa dalla giornalista Carla De Girolamo e da sua figlia Martina Miccione. La loro è una storia di resilienza, correttezza e fantasia, nel momento in cui per i ristoratori le cose sembrano mettersi male. Sette dipendenti, ora tutti in cassa covid-19, un fatturato in forte calo, le fatture e le tasse da pagare, e la paura che, alla fine dell’epidemia, possa anche non esserci un happy-ending. C’è tutto questo, come per molti altri ristoratori. Ma un’idea, le due proprietarie, ce l’hanno avuta subito: pagare i lavoratori e i fornitori, facendo appello (anche) all’amicizia della loro clientela. Spiega Martina, 28 anni, una laurea all’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, responsabile della carta dei vini in sala: «Io e mia madre, dopo lo sconforto iniziale, abbiamo deciso di cominciare a fare le consegne in tutta Milano. Vini, liquori, birre, quello che ci chiedono. E poi, sul nostro sito, abbiamo lanciato un’idea che è piaciuta molto: acquistare in anticipo, a prezzi scontati, un calice di vino, pranzi di lavoro e tutti i nostri prodotti. Potranno consumarli quando saremo tornate alla normalità». La risposta è stata subito tempestiva e, per la sopravvivenza del loro locale, molto utile. «Certo, noi siamo fortunate. Non abbiamo una clientela anonima e di passaggio. Questa iniziativa ci ha aiutato a pagare subito i fornitori, che avevamo scelto con attenzione per la qualità dei loro prodotti. I loro ringraziamenti, come se non se lo aspettassero, ci hanno fatto grande piacere. Così come ci ha fatto piacere la reazione dei dipendenti, con cui abbiamo legami spesso di amicizia. Una ragazza ci ha persino detto che non voleva il salario perché tanto, a casa, non avrebbe speso nulla. Li abbiamo pagati tutti fino a che non è arrivata la cassa integrazione, anche se eravamo chiusi da qualche settimana e non incassavamo più».
Martina e Carla hanno deciso, dopo l’inizio della quarantena, di rinunciare anche al loro stipendio. L’obiettivo è chiaro: tenere in piedi l’attività, indebitandosi il meno possibile, fino a che non sarà possibile riaprire. Con tutte le precauzioni del caso e con una road map sanitaria che appare comunque incerta e infernale per tutti. «Ora è impossibile fare previsioni» continua Martina. «Sappiamo solo che dovremo cambiare il nostro modo di fare ristorazione: le distanze tra i tavoli, le presenze dilazionate, i regolamenti... Ci saranno in futuro ritmi di lavoro diversi e altri numeri, più piccoli. Possiamo anche immaginare che i clienti non si sentiranno subito a loro agio in posti pubblici dove c’è tanta gente. La ristorazione, temo, sarà l’ultima a ripartire». La perdita, in termini di fatturato, sarà pesante per
tutto il settore, con oltre 50mila bar e ristoranti (secondo la Federazione pubblici esercizi) che rischiano di non riaprire più.
I RISCHI DEL SETTORE
«Penso a quelli che hanno appena avviato l’attività. La cassa integrazione può aiutare, ma è una soluzione temporanea.
Ci sarà bisogno di ben altro, come seri sgravi fiscali per esempio, di lungo periodo. Altrimenti molti non ce la faranno proprio. Già in condizioni normali, la piccola ristorazione fa molta fatica a fare dei margini. Immaginatevi in futuro. Sui 600 euro, che anche noi abbiamo richiesto, dico invece una cosa: non voglio sputarci sopra, ma rischiano di essere solo un’elemosina. Non risolvono il problema e non aiutano a trovare soluzioni di medio periodo». Chiedo a Martina se non abbia pensato per un attimo di mollare tutto. «Certo, l’ho anche detto. Ero stata io a voler chiudere una settimana prima che arrivasse il decreto. Ero preoccupata per i ragazzi, per i clienti e non volevo diventare la poliziotta che fa rispettare le distanze interpersonali nel locale. Quando le ho suggerito di chiudere mia madre mi ha risposto: “Se chiudiamo ora falliamo”. Le ho detto che ci saremmo inventati qualcosa per tirare avanti, fare risparmi e resistere. Forse dovremo diventare in futuro un po’ più autarchici e sostenibili, autoproducendo qualsiasi cosa, dalle marmellate ai prodotti della terra. Forse dovremo tagliare un po’ anche sul costo del personale a chiamata. Ma voglio essere positiva. Ce la dobbiamo fare e riapriremo sicuramente. Ci vediamo presto, appena ce lo consentiranno».