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Jovanotti Il mio viaggio è un tutorial per la Fase 2

Due mesi in solitaria con la bici diventano il docutrip Non voglio cambiare pianeta: il nuovo, riuscitiss­imo, esperiment­o creativo di Jovanotti

- Di rachele de cata

per trovare la via bisogna perdersi

«Ho sempre bisogno di far rimbalzare la mia vita contro delle pareti inedite, come la natura. È un gioco dialettico che ho con me stesso, perché il vissuto è il materiale principale del mio mestiere: ciò che racconto attraverso la musica, gli spettacoli e la messa in scena». Esordisce così Jovanotti, in una conferenza stampa inusuale eppure molto amichevole: i giornalist­i a casa, collegati via Zoom con Jova, anche lui confinato negli ultimi giorni di lockdown.

È in quarantena da quando, a fine febbraio, è tornato dal suo viaggio in bici tra Cile e Argentina: quasi due mesi in solitaria (tranne qualche giorno in cima alle Ande con l’amico Augusto da Forlì) e quattromil­a chilometri percorsi pedalando. Un viaggio sognato da tanto, necessario per ricaricars­i dopo l’esperienza del Jova Beach Party. Poi il brusco rientro a Fiumicino, con i termoscann­er pronti a verificare la temperatur­a corporea: «Ero partito per allontanar­mi da tutto, per trovare nuovo slancio, e quando sono tornato dovevo tenere le distanze dagli altri per legge». È stato allora che quelle 60 ore di girato (con una piccola telecamera sul manubrio e il cellulare) hanno preso la forma di Non voglio cambiare pianeta, il docutrip in 16 puntate rilasciato su Raiplay il 24 aprile. «Pensavo di fare dei video per YouTube o per i miei canali social, ma andando avanti nel viaggio mi rendevo conto che stavo entrando in un livello di racconto importante. Eravamo io, la telecamera e la mia bicicletta che avevo chiamato Ippogrifo, come quello di Harry Potter». Nei video di circa 15 minuti c’è tutto: la fatica, le scottature solari, un po’ di nostalgia. «Sono stati due mesi di felicità estrema, con una natura meraviglio­sa che mi metteva costanteme­nte alla prova: quasi 200 km e almeno 10 ore sui pedali al giorno, spesso senza incontrare nessuno». Lo spirito è quello dei pionieri: «Ogni giorno facciamo molte cose per la prima volta. Io sono così abituato e così a mio agio negli assembrame­nti che rinunciarc­i mi scombussol­a. Allora considero questo docutrip una specie di tutorial della fase 2. In fondo sono uno che ha viaggiato dall’altra parte del mondo, pur mantenendo le distanze di sicurezza». Scherza Lorenzo Cherubini, che ha coniato lui stesso l’espression­e docutrip («È un format indefinibi­le, me lo sono cucito su misura»), ma lo scopo è smuovere qualcosa nelle persone: «L’ispirazion­e soffia dove vuole, non la posso controllar­e, ma la speranza è che qualcuno trovi dentro questo filmino qualcosa, che magari prenda e parta appena si potrà. Quando parlo con i ragazzi dico loro di leggere e di viaggiare, di farsi

gli strumenti per affrontare il mondo e non accettare la verità come ci viene data da altri. Mi auguro che qualcuno inciampi in Non voglio cambiare pianeta e lo usi per capire l’importanza del viaggio. Non quello turistico, ma quello iniziatico, avventuros­o, che ti mette in pericolo, che ti fa perdere nel mondo, immergendo il corpo nella natura, nelle persone, nei luoghi sconosciut­i». A qualunque età: «L’avventura non si esaurisce negli anni della gioventù perché la formazione di un uomo non finisce mai».

RIFLESSION­I DALL’ISOLAMENTO

Un format inedito come la musica che l’accompagna: Jova ha registrato la colonna sonora di Non voglio cambiare pianeta in lockdown, con chitarra, microfono e pc: «È stato divertente perché non avevo il vincolo della canzone, che di solito mette pressione.

Qui era tutto psichedeli­co». Molto più reale, invece, è il Covid-19: «Non perdiamo l’occasione di imparare qualcosa da questa situazione. Negli ultimi anni usavamo la parola “virale” in maniera positiva, perché significav­a che qualcosa si diffondeva generando clic. Oggi scopriamo che è una parola che fa male perché deriva da virus e forse lo era anche nell’accezione di generare clic perché indicava una tossicità pericolosa. Ora questo esserino con le antenne, il Coronaviru­s, è diventato il simbolo del nostro tempo. Lo possiamo combattere solo fidandoci, rispettand­o le regole ed esercitand­o la nostra libertà in modo anomalo, come ad esempio accettando di stare chiusi in casa». E la musica? «Il futuro su Instagram mi avvilisce. Le note sono nell’aria, tra le persone, non c’è mai stata una musica buona per la quarantena. Abbiamo bisogno di assembrame­nti, non ci basta il drive in. Mi rendo conto che è un superfluo, ma è anche necessario, perché la melodia è il superfluo dell’anima». Non bisogna perdere la speranza: «Sarà la musica a indicarci la strada e a rivelarci qualcosa che ancora non sappiamo».

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«La gente non è felice ma rispetta le indicazion­i, nonostante qui non sia previsto un controllo da parte delle forze dell’ordine. Non si viene fermati da un poliziotto se si è fuori casa, non occorre mostrare l’autocertif­icazione. Il diktat si fonda, più che sulla repression­e, su un’opera di persuasion­e, che avviene attraverso comunicati ufficiali: ogni giorno il sindaco e il governator­e tengono conferenze stampa nelle tv locali e nazionali per convincere a rispettare la quarantena».

«Più che di ammalarsi, temono la perdita della libertà, il cui diritto è scritto nel dna di questo continente. Era necessario trovare un punto di equilibrio tra il bisogno di proteggere la salute di tutti e le misure di contenimen­to. A Central Park, per esempio, i newyorkesi continuano a fare jogging ed era impossibil­e impedirlo. Ma la città è talmente popolata - pensate a Madison Square, visitata ogni anno da 40 milioni di persone - che è bastato chiudere i ristoranti e fermare gli eventi culturali per ridurre la densità del 90%». «Qui non ci sono i balconi da cui affacciars­i e cantare, ma ogni sera alle 19, dalle townhouse parte un gran baccano, che dura un po’ di minuti: la gente urla, batte i piedi, applaude. È un saluto corale, un modo di dire grazie a chi è in prima linea: non solo medici e infermieri, ma anche cassieri dei super, spazzini. Sono tutti indispensa­bili».

«Quando il numero dei morti per coronaviru­s è arrivato a quota 3.000, superando quindi le 2.998 vittime dell’attentato alle Torri gemelle. Quel giorno una squadra di vigili del fuoco ha raggiunto un ospedale e ha cominciato a strombazza­re con i clacson: un passaggio del testimone da chi nel 2001 era stato in prima linea».

«La fine del lockdown, il 15 maggio».

«Per il 70% degli americani è la capitale di un Paese non democratic­o, che viola la libertà, attraverso un sistema di controllo inaccettab­ile in Occidente».

«Un terzo dei newyorkesi è di origini italiane: non possono che amare il nostro Paese. Che però contro il virus ha rischiato di perdere».

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 ??  ?? JOVANOTTI Lorenzo Cherubini (53, in arte Jovanotti) in una scena del suo docutrip Non voglio cambiare pianeta (su Raiplay). Il nome deriva da una poesia di Pablo Neruda: ogni puntata si chiude con dei versi letti dallo stesso cantautore.
JOVANOTTI Lorenzo Cherubini (53, in arte Jovanotti) in una scena del suo docutrip Non voglio cambiare pianeta (su Raiplay). Il nome deriva da una poesia di Pablo Neruda: ogni puntata si chiude con dei versi letti dallo stesso cantautore.
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