Settembre, è tempo di reprise
CI SIAMO, LE VACANZE SONO FINITE QUASI PER TUTTI. E ADESSO? COSA SUCCEDERÀ E CHE VITA CI ASPETTA? TRA IPOTESI (PARECCHIE) E CERTEZZE (POCHINE), PROVIAMO A DARE UN’OCCHIATA AL MONDO CHE VERRÀ
C’è stato un periodo – eravamo ragazzi – in cui negli album di musica pop andava di moda la reprise. Vale a dire quel brano, solitamente un singolo, che tornava verso la fine del disco come accenno, rivisitazione, “doppio” diverso e uguale all’originale. La generazione che ora va per i quaranta (e quella appena precedente) mi capisce. E forse capisce perché m’è tornata in mente quella parola ormai vintage. Da settimane (no: mesi) ci diciamo che siamo pronti a riprendere la nostra vita di prima. E poi che no: non lo siamo. Ma sì, dài, ce la possiamo fare. No, proprio no: non siamo pronti, e basta. Settembre dovrebbe essere la ripresa, settembre sarà una reprise. La hit che conosciamo già solo rivista, aggiornata, variata nelle armonie e negli arrangiamenti. «Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi», diceva quel romanzo (e quel film) là. Noi non le rivogliamo, le cose di prima. Non rivogliamo i bollettini medici, le videocall, la palestra: quanto è stato più facile fare lezione di cardio quando si voleva, come si voleva (e, soprattutto, senza l’istruttore lì a guardarti e a dirti se facevi bene o, più facilmente, male)? Non rivogliamo il lievito madre e il lievito di birra da scovare nel mercato nero. Non rivogliamo i codici di Skype Business, i 200 metri dalla porta di casa come massimo orizzonte di viaggio, le colazioni senza cappuccino perché i bar son chiusi. Non rivogliamo la paura del vicino, le code fuori dai negozi, le prenotazioni per qualsiasi cosa perché chi primo arriva meglio alloggia (gli altri non alloggiano proprio: va mantenuto il metro tassativo). Non rivogliamo i congiunti scongiunti.
SEMBRAVA DISTOPIA, E INVECE NO
Eppure, in fondo, rivogliamo tutto. Il mondo è cambiato troppo (e troppo in fretta), non saremo di certo noi a riavvolgere il nastro e a riportarlo dov’era, com’era. Il sospetto è che ci ritroveremo a settembre di nuovo con le mascherine, le norme di sicurezza, lo spettro di un nuovo contagio all’orizzonte. «Apro una bottiglia di pinot o mi tengo la cantina per la quarantena?»: così scrivevo su Facebook il 22 febbraio scorso. All’inizio ci scherzavamo su, poi il lockdown è arrivato davvero (e i vini li abbiamo comprati online). La distopia – dell’isolamento, della distanza, delle mascherine – è diventata realtà. E oggi ci sembra l’unica possibile. Un semplice starnuto è il segno che bisogna informarsi, forse fermarsi. «Hai presente quanti raffreddori si piglia in media un ragazzino in un inverno?», mi diceva di recente un’amica, madre di tre figli di cui due adolescenti. In classe, e poi diritto a basket, e il corso di chitarra… etciù! Dall’inizio del nuovo anno scolastico, ogni malanno anche minimo costringerà lo studente di turno a restare (ancora) a casa. Se c’è un fronte in cui la distopia si compie per davvero, quello è la scuola. Tra social e cronaca vera, già si è visto e letto di tutto: i banchi con le rotelle, i capannoni riconvertiti a istituti per distanziare meglio gli alunni... Al confronto, gli uffici che forse resteranno in smart working fino al 2021 (e oltre?) non sono niente.
PROSSIMAMENTE SUL GRANDE SCHERMO
L’altro rilancio (im)possibile è quello dell’intrattenimento. Quanti concerti previsti per quest’anno vi hanno rimandato? A me almeno quattro. Alcuni all’autunno dello stesso 2020, anno terribile e infinito; altri (più realisticamente) alla primavera/estate dell’anno che verrà. Ma ormai non ci crediamo più. Pare inverosimile qualsiasi evento di musica dal vivo, inimmaginabile pure un qualsivoglia nuovo film al cinema. Qualcosa quest’estate è arrivato e sta arrivando, ma le uscite grosse paiono rimandate a data da destinarsi. Arriverà (dopo lungo penare) Tenet di Christopher Nolan, il titolo che detterà simbolicamente la vera ripartenza delle sale. Ma forse non basterà. «È come se stessimo aspettando qualcuno che aspetta, che a sua volta aspetta un altro, che ne aspetta un altro ancora. E alla fine nessuno decide niente», osservava un altro amico, che lavora nel cinema. Saremo condannati al solito divano, che male (ormai) non ci fa: ma a un certo punto anche le serie su Netflix finiranno, e non ci sarà più nulla di nuovo. In questo scenario che pare sempre meno futuribile, ci sono però anche cose che vorremmo rimanessero intatte. La sindrome della capanna. Le città piene di tavolini all’aperto.
La tuta: ormai abbiamo imparato a scegliere i modelli che non sembrano fatti per una pratica di yoga, quelli che si mimetizzano nel guardaroba “autorizzato”. Una cosa è certa: nessuno di noi ha più voglia (o non è proprio più antropologicamente in grado) di abbottonarsi un paio di jeans. Non ci resta che aspettare. Wake Me Up When September Ends, recitava una vecchia canzone dei Green Day. Era nell’album American Idiot, che poi è diventato un musical di successo a Broadway. È nei musical che, più che in ogni altro contesto, si utilizza la reprise dei temi e dei ritornelli. Qualcosa vorrà pur dire.
TUTTO È CAMBIATO TROPPO, e troppo in fretta. NON SAREMO CERTO NOI A riavvolgere il nastro