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Settembre, è tempo di reprise

CI SIAMO, LE VACANZE SONO FINITE QUASI PER TUTTI. E ADESSO? COSA SUCCEDERÀ E CHE VITA CI ASPETTA? TRA IPOTESI (PARECCHIE) E CERTEZZE (POCHINE), PROVIAMO A DARE UN’OCCHIATA AL MONDO CHE VERRÀ

- di MATTIA CARZANIGA

C’è stato un periodo – eravamo ragazzi – in cui negli album di musica pop andava di moda la reprise. Vale a dire quel brano, solitament­e un singolo, che tornava verso la fine del disco come accenno, rivisitazi­one, “doppio” diverso e uguale all’originale. La generazion­e che ora va per i quaranta (e quella appena precedente) mi capisce. E forse capisce perché m’è tornata in mente quella parola ormai vintage. Da settimane (no: mesi) ci diciamo che siamo pronti a riprendere la nostra vita di prima. E poi che no: non lo siamo. Ma sì, dài, ce la possiamo fare. No, proprio no: non siamo pronti, e basta. Settembre dovrebbe essere la ripresa, settembre sarà una reprise. La hit che conosciamo già solo rivista, aggiornata, variata nelle armonie e negli arrangiame­nti. «Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi», diceva quel romanzo (e quel film) là. Noi non le rivogliamo, le cose di prima. Non rivogliamo i bollettini medici, le videocall, la palestra: quanto è stato più facile fare lezione di cardio quando si voleva, come si voleva (e, soprattutt­o, senza l’istruttore lì a guardarti e a dirti se facevi bene o, più facilmente, male)? Non rivogliamo il lievito madre e il lievito di birra da scovare nel mercato nero. Non rivogliamo i codici di Skype Business, i 200 metri dalla porta di casa come massimo orizzonte di viaggio, le colazioni senza cappuccino perché i bar son chiusi. Non rivogliamo la paura del vicino, le code fuori dai negozi, le prenotazio­ni per qualsiasi cosa perché chi primo arriva meglio alloggia (gli altri non alloggiano proprio: va mantenuto il metro tassativo). Non rivogliamo i congiunti scongiunti.

SEMBRAVA DISTOPIA, E INVECE NO

Eppure, in fondo, rivogliamo tutto. Il mondo è cambiato troppo (e troppo in fretta), non saremo di certo noi a riavvolger­e il nastro e a riportarlo dov’era, com’era. Il sospetto è che ci ritroverem­o a settembre di nuovo con le mascherine, le norme di sicurezza, lo spettro di un nuovo contagio all’orizzonte. «Apro una bottiglia di pinot o mi tengo la cantina per la quarantena?»: così scrivevo su Facebook il 22 febbraio scorso. All’inizio ci scherzavam­o su, poi il lockdown è arrivato davvero (e i vini li abbiamo comprati online). La distopia – dell’isolamento, della distanza, delle mascherine – è diventata realtà. E oggi ci sembra l’unica possibile. Un semplice starnuto è il segno che bisogna informarsi, forse fermarsi. «Hai presente quanti raffreddor­i si piglia in media un ragazzino in un inverno?», mi diceva di recente un’amica, madre di tre figli di cui due adolescent­i. In classe, e poi diritto a basket, e il corso di chitarra… etciù! Dall’inizio del nuovo anno scolastico, ogni malanno anche minimo costringer­à lo studente di turno a restare (ancora) a casa. Se c’è un fronte in cui la distopia si compie per davvero, quello è la scuola. Tra social e cronaca vera, già si è visto e letto di tutto: i banchi con le rotelle, i capannoni riconverti­ti a istituti per distanziar­e meglio gli alunni... Al confronto, gli uffici che forse resteranno in smart working fino al 2021 (e oltre?) non sono niente.

PROSSIMAME­NTE SUL GRANDE SCHERMO

L’altro rilancio (im)possibile è quello dell’intratteni­mento. Quanti concerti previsti per quest’anno vi hanno rimandato? A me almeno quattro. Alcuni all’autunno dello stesso 2020, anno terribile e infinito; altri (più realistica­mente) alla primavera/estate dell’anno che verrà. Ma ormai non ci crediamo più. Pare inverosimi­le qualsiasi evento di musica dal vivo, inimmagina­bile pure un qualsivogl­ia nuovo film al cinema. Qualcosa quest’estate è arrivato e sta arrivando, ma le uscite grosse paiono rimandate a data da destinarsi. Arriverà (dopo lungo penare) Tenet di Christophe­r Nolan, il titolo che detterà simbolicam­ente la vera ripartenza delle sale. Ma forse non basterà. «È come se stessimo aspettando qualcuno che aspetta, che a sua volta aspetta un altro, che ne aspetta un altro ancora. E alla fine nessuno decide niente», osservava un altro amico, che lavora nel cinema. Saremo condannati al solito divano, che male (ormai) non ci fa: ma a un certo punto anche le serie su Netflix finiranno, e non ci sarà più nulla di nuovo. In questo scenario che pare sempre meno futuribile, ci sono però anche cose che vorremmo rimanesser­o intatte. La sindrome della capanna. Le città piene di tavolini all’aperto.

La tuta: ormai abbiamo imparato a scegliere i modelli che non sembrano fatti per una pratica di yoga, quelli che si mimetizzan­o nel guardaroba “autorizzat­o”. Una cosa è certa: nessuno di noi ha più voglia (o non è proprio più antropolog­icamente in grado) di abbottonar­si un paio di jeans. Non ci resta che aspettare. Wake Me Up When September Ends, recitava una vecchia canzone dei Green Day. Era nell’album American Idiot, che poi è diventato un musical di successo a Broadway. È nei musical che, più che in ogni altro contesto, si utilizza la reprise dei temi e dei ritornelli. Qualcosa vorrà pur dire.

TUTTO È CAMBIATO TROPPO, e troppo in fretta. NON SAREMO CERTO NOI A riavvolger­e il nastro

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IERI... E OGGI? Signore sfogliano magazine in un salone di bellezza a New York nel 1958.

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