Lucio Battisti
Da Balla Linda a Per una lira, da 29 settembre a Non è Francesca: ecco la storia del disco da cui è nata una leggenda
Come nacque il suo primo album
Un punto d’arrivo. Questo rappresentava il primo album per un artista negli Anni 60. Se si era dimostrato capace di vendere dischi con una serie di singoli, le case discografiche li raccoglievano in un LP, come venivano chiamati allora gli album. Lucio Battisti non fece eccezione. Il suo primo, omonimo album uscì il 5 marzo del 1969, a poco più di un mese dalla sua unica partecipazione al Festival di Sanremo con la canzone «Un’avventura». Il disco, ora in edicola con Sorrisi (vedere box), conteneva 12 brani, alcuni precedentemente ceduti ad altri, come «29 settembre» e «Nel cuore, nell’anima» incisi nel 1967 dall’Equipe 84. E canzoni già cantate da lui sui 45 giri, come «Per una lira» del 1966, «Balla Linda», uscita nel 1968, e «Un’avventura» del 1969.
«Pur essendo stato fino a quel momento soprattutto un autore per altri artisti, Lucio era molto geloso delle sue canzoni» ricorda Maurizio Vandelli, cantante, chitarrista e leader dell’Equipe 84. «La versione di “29 settembre” finita sul disco di Lucio è leggermente diversa da quella che avevamo inciso noi e che era stata il suo primo grande successo come autore. Lucio recuperò l’arrangiamento originale, che noi avevamo cambiato. Deduco che il nostro non gli fosse piaciuto tanto! D’altronde lui non si sprecava in complimenti. Ricordo che solo una volta mi disse: “A’ Maurì, ho imparato a cantare da te!”. Non ebbi il tempo di riprendermi dalla sorpresa che subito aggiunse: “Ma ho corretto tutti i tuoi errori...”. Aveva un carattere difficile, ma a me piaceva lavorare con lui. È una delle persone con cui mi sono divertito di più. Battuta sempre pronta, intelligentissimo. Ti fregava il caffè e non pagava mai. Ridevamo tanto. “Balla Linda”, per esempio, era un nostro continuo motivo di scherzi un po’ da caserma: dal momento che “balla” in milanese significa “palla”, chiamavamo scherzando tra
noi il brano in modi un po’ più coloriti...».
Aneddoti che contraddicono l’immagine cupa e seriosa che di Battisti è stata tramandata. «Ma no, soprattutto agli inizi era simpaticissimo» ricorda Vince Tempera, uno dei maggiori tastieristi e arrangiatori italiani, che sull’album d’esordio suona in «Un’avventura». «Insieme scherzavamo fino a tarda notte in un ristorante alla periferia di Milano. Noi lo prendevamo in giro per la sua “vocina”. All’epoca era sconosciuto e non aveva un grande ascendente sui musicisti. Pur rispettoso, in studio non scherzava: era un perfezionista. Aveva in mente un’idea precisa di come doveva suonare il brano e te lo faceva rifare fino a quando non era perfetto. Ti sfiniva». Continua il maestro Tempera: «Quel pezzo, “Un’avventura”, l’ho visto nascere: Battisti si presentò con un provino che voleva far sentire a Wilson Pickett (che sarebbe poi stato suo partner a Sanremo, ndr) e ne incidemmo una versione diversa, meno rhythm and blues. Ma dopo che Pickett fece il proprio arrangiamento, Lucio volle rifarla allo stesso modo». A dirigere l’orchestra in diversi brani, tra cui «Un’avventura» e «Non è Francesca», c’era il maestro Gian Piero Reverberi. «Quella per me era pura routine, perché il primo album di un artista era una sorta di compilation» racconta Reverberi, che oggi vive in Svizzera. «Non si passava molto tempo insieme, ci si ritrovava, s’incideva il brano in programma e si andava a casa. Io mi consideravo un artigiano che fa mobili e poi non si cura di dove vanno a finire. Quel brano lo diressi anche a Sanremo, ma francamente non mi resi conto che stava nascendo un mito della musica leggera».
Ricorda ancora Tempera: «Mi divertivo molto a suonare quelle canzoni. Sentivo che erano qualcosa di diverso. Tutto allora era molto ruspante, non c’erano i grandi studi di oggi. La casa discografica Ricordi usava come sala di registrazione il teatro di un oratorio, dove i preti facevano il cineforum. Durante la settimana si montava il palco, si suonava e si registrava. Nel weekend si sbaraccava tutto per permettere di proiettare i film per i ragazzi. E dovevi incidere in fretta, perché alle sette di sera l’ingegnere del suono, un tecnico in camice bianco, spegneva tutto e andava a casa a mangiare».
«Io mi aspetto sempre che un giorno o l’altro squilli il telefono e sia Lucio» conclude Vandelli. «D’altronde era fatto così. Quando nell’89 pubblicai “29 settembre 89” con le mie vecchie canzoni riarrangiate e ricantate, squillò il telefono ed era Lucio. Non lo sentivo da anni. Disse: “A’ Maurì, questo è quello che intendo io per rivisitazione”. Attaccò e sparì di nuovo».