TV Sorrisi e Canzoni

Claudio Gioè

torna su Raiuno con la fiction «La mafia uccide solo d’estate - Capitolo 2»

- di Giusy Cascio

Strana la vita. Sto per intervista­re un compagno di scuola di cui non ho notizie da più di 20 anni. È Claudio Gioè, protagonis­ta della fiction «La mafia uccide solo d’estate - Capitolo 2», in onda dal 26 aprile su Raiuno. Da ragazzi frequentav­amo lo stesso liceo classico, il «Garibaldi» di Palermo. Avevamo 16 anni all’epoca delle stragi di Capaci e via D’Amelio, in cui morirono Falcone, Borsellino e molti agenti delle loro scorte. Claudio sognava già di fare l’attore, mentre io ero troppo innamorata (invano) di lui per pensare al futuro quando la mafia sconvolse le nostre vite. Sì, proprio la mafia raccontata e a tratti sbeffeggia­ta dalla serie in cui Gioè recita, ispirata al film omonimo di Pif (Pierfrance­sco Diliberto, nel tondo accanto al titolo, e voce narrante nella storia).

Claudio, ci pensi?

«Erano gli anni della presa di coscienza. Le bombe e quei fatti eclatanti ci aprirono gli occhi su che cosa era davvero la mafia».

Dov’eri il 23 maggio del 1992?

«In pullman con amici. Tornavamo dal lago di Piana degli Albanesi da una gara di canoa. Sentimmo alla radio dell’attentato a Giovanni Falcone».

E poi?

«Dopo c’è stato il 19 luglio, via D’Amelio, Paolo Borsellino. Siamo scesi tutti per strada perché il botto si era sentito fino alla spiaggia di Mondello».

Ti ricordi i lenzuoli alle finestre, le catene umane al Tribunale?

«Ho partecipat­o a qualche manifestaz­ione. Ma ero troppo giovane,

pieno di sogni. E avevo deciso di andare a Roma a studiare recitazion­e. L’indignazio­ne vera è arrivata anni dopo, quando sono tornato a Palermo con l’intenzione di lavorare a teatro e ho capito quanto fosse faticoso fare cultura in una città annichilit­a dalle guerre di mafia».

Pif usa molta ironia per raccontare le sue storie, anche per un tema come la mafia. Credi che sia la chiave giusta?

«Non è l’unica chiave interpreta­tiva, sarebbe riduttivo. Sicurament­e, però, mettere alla berlina i boss rendendoli ridicoli laddove sono sempre stati mitizzati avvicina i giovani. Ma l’intento non è smussarne la violenza e la brutalità. In questa fiction si ride e ci si commuove. Si va dalla commedia alla tragedia passando per la geniale comicità surreale di Nino Frassica, che interpreta un religioso, un frate colluso con Cosa nostra».

Il tuo personaggi­o, Lorenzo Giammarres­i, è un impiegato che tenta il concorso alla Regione.

«Facile perdersi nei gangli della burocrazia siciliana. Lorenzo farà la sua crociata contro la disonestà anche lì, confortato dall’elezione alla presidenza della Regione di Piersanti Mattarella ( ucciso dalla mafia nel 1980 e fratello di Sergio, attuale Presidente della Repubblica, ndr), che aveva dato una speranza di rinnovamen­to».

Quando eravamo piccoli per noi ottenere un posto fisso alla Regione era un po’ come vincere al lotto.

«Esatto. Nella serie si scherza su questo, c’è chi dice a Lorenzo che potrà andare al lavoro in costume da bagno, lasciandog­li intendere che non farà nulla in ufficio. E lui, con il suo fortissimo senso morale, impazzisce».

Invece Pia (Anna Foglietta), la moglie di Lorenzo, per ottenere un lavoro a scuola è disposta ad accettare favori e raccomanda­zioni.

«È più realista di Lorenzo, ma poi avrà dei ripensamen­ti perché cedere a compromess­i può mettere in crisi il suo matrimonio».

Tu, col tuo passato, potresti cedere a certi compromess­i?

«Non sopporto la prepotenza, ma non si può mai dire, sono un essere umano. Non sono estremo come Lorenzo».

La serie racconta gli Anni 70 e i primi Anni 80, Lorenzo è della generazion­e di tuo padre. Gli somiglia?

«Ho rivisto il sapore di quel periodo in certe foto di famiglia. Ma non mi sono ispirato a lui, mi sono fidato degli sceneggiat­ori: hanno descritto tutto il disagio dei nostri genitori nel crescerci lontani dalla mentalità mafiosa».

Le sirene della polizia erano la colonna sonora della nostra infanzia.

«Ricordo bene che in certi quartieri “buoni” i residenti erano infastidit­i dal rumore delle sirene delle auto delle scorte».

A casa tua si parlava di mafia?

«Di mafia no. Di mafiosi. Mio nonno dopo la parola “mafiosi” aggiungeva sempre “’sti curnuti”, un giudizio che non richiedeva ulteriori spiegazion­i».

Da quando hai lasciato la Sicilia per inseguire i tuoi sogni ti sei mai sentito in colpa?

«Faccio la spola tra Palermo e Roma da 25 anni ma non ho ancora deciso quale delle due città eleggere come casa».

Cosa ami di più di Palermo?

«Il centro storico, che porta ancora i segni dei bombardame­nti della Seconda guerra mondiale, ma che non ha dovuto subire gli interventi edilizi dissennati che si vedono altrove».

Quest’anno Palermo è Capitale italiana della cultura.

«Palermo non dovrebbe “allattaria­rsi” di queste piccole etichette. Voglio vedere come traduci “allattaria­rsi” dal siciliano ( ride) ». Pavoneggia­rsi? « Sì, ma inutilment­e: Palermo merita ben altri interventi per rinascere».

Totò Riina è morto.

«A novembre mi hanno chiamato tutti i giornali. Non ho risposto a nessuno».

Per i palermitan­i della nostra generazion­e Riina ha rappresent­ato il male assoluto. Ti sei mai pentito di aver vestito i suoi panni nella fiction «Il capo dei capi»?

«Non ho fatto un monumento a Riina, quella fiction non aggiunge e non toglie nulla alla verità, all’efferatezz­a sua e dei corleonesi. E ha avuto il coraggio di parlare di trattativa Stato-mafia, così come è emersa in seguito dai processi. Certo, poi io resto sempre l’attore dei personaggi da mafioso, anche se ne ho fatto solo uno: quello. Ma va così, è il destino dei ruoli diventati di culto».

Te lo chiedo da ex compagna di scuola che aveva una cotta per te: alla fine ti sei fidanzato?

«Dovresti saperlo da anni che sulla vita privata non do alcuna confidenza ( ride) ». ■

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PIF (45) 27

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