Cesare Bocci
Da «Montalbano» a «Ballando con le stelle», così ha conquistato tutti
Sono le 7 di sera. All’Auditorium del Foro Italico di Roma Cesare Bocci, jeans, felpa e piedi nudi, si abbandona su un divanetto: «Sono distrutto» dice ridendo. Ha terminato da poco le prove di «Ballando con le stelle». «Un’esperienza tanto coinvolgente quanto faticosa. La mattina saluto Daniela e Mia ( la compagna e la figlia, ndr), esco di casa con il sorriso e arrivo qui felice di esserci. Poi certo, mi fa male qualunque cosa e ogni giorno la fisioterapia è obbligatoria».
Non si direbbe. A 61 anni su quella pista fa volteggiare la sua maestra Alessandra Tripoli come un fuscello.
«Quando ho iniziato questo programma la prima preoccupazione è stata la vergogna. La seconda, la schiena. Finora, facendo gli scongiuri, ho il tendine di Achille infiammato, una spalla che mi fa vedere le stelle, i polsi che mi fanno male ma non ho mai avuto mal di schiena ( ride). Prima raccoglievo un coriandolo da terra e mi bloccavo... Sicuramente l’allenamento fa bene. Non smetterei mai di ballare». A casa ha insegnato qualche passo di danza alla sua compagna Daniela?
«Non esattamente. Però ieri sera l’ho coinvolta in una piccola coreografia acrobatica e siamo ruzzolati sul letto, ridendo come matti».
E ora è pronto a ripartire per girare due nuovi episodi di «Il commissario Montalbano».
«Sì. Sarò sul set fino ai primi di luglio. Un episodio è tratto dal romanzo “L’altro capo del filo” e gireremo per la prima volta fuori dalla Sicilia, in Friuli. L’altro episodio è tratto dai racconti e
si intitola “Un diario del ’43”». Che clima si respira sul set, dopo tanto tempo?
«Meraviglioso. È sempre bello ritrovarsi. Sul set e… a tavola. La sera organizziamo delle super cene tutti insieme. E io sono sempre ai fornelli». Sa cucinare?
«Sì, mi piace tanto. Mi sto specializzando in piatti siciliani come la “pasta ca’ muddica”. Ma per le nostre cene di set in genere vado sugli spaghetti con le vongole. L’ultima volta eravamo 28 persone: ho buttato giù tre chili di pasta…». Cesare, questa è la sua prima copertina da solo su Sorrisi…
«È emozionante. Da bambino lo trovavo sempre a casa di mia zia. Con mia cugina Stefania lo leggevamo e sognavamo il mondo scintillante della televisione. Ora rientrerò in quella casa, ma stavolta sulla copertina!». Lei è nato in un piccolo paese in provincia di Macerata.
«Sì. Camporotondo di Fiastrone, 450 abitanti circa». Cosa le è rimasto di quella realtà?
«Tutto. Papà era veterinario, avevamo un podere e allevavamo vitelli. Mamma era la maestra elementare del paese. Quella vita mi ha dato la cultura del lavoro come un dovere e come un piacere. In campagna tutti danno una mano, dal bambino al nonno». Che ricordi ha?
«Quando avevo cinque anni la nostra casa venne danneggiata da una frana e ci trasferimmo nell’appartamento sopra alla scuola. Quando avevo la febbre, ero a casa e sentivo le lezioni della maestra nella classe sotto alla mia stanza». Ha parlato di cultura del lavoro.
«Certo. Di soldi non ce n’erano tanti, noi eravamo tre figli e io ho cominciato prestissimo a fare dei lavoretti». Quali? «D’estate in campagna dopo la mietitura non c’è moltissimo da fare, l’aratura
Ma sono anni che Milly la corteggia, qualcosa che la spaventava ci doveva pur essere…
«Fino a 20 anni ho avuto una paura folle del buio, di quello che c’è dietro l’angolo, delle novità. Io sono il più piccolo della famiglia e da bambino mia sorella e mio fratello si nascondevano per casa, poi all’improvviso spuntavano fuori urlando e mi terrorizzavano. Questa paura me la sono portata dietro». Non l’ha superata?
«In parte sì. Una sera, a 20 anni, mi sono inoltrato nel bosco, mi sono seduto al buio, da solo, ascoltando i rumori della natura, finché piano piano mi sono convinto: al buio ci sono le stesse cose che c’erano pri-
è più avanti, e io andavo a lavorare da “Vince’ de lu mancì” che era il fabbro e aveva pure la pompa di benzina». Un nome curioso…
«Non credo di averne mai saputo il significato ( ride). Comunque, quando lui si assentava io restavo al distributore, ma passava una macchina ogni morte di papa. E intanto facevo i gabbioni per i conigli: tagliavo i pezzi, la rete e poi li saldavo. Con Primetto e poi con Jack, i due autotrasportatori del paese, andavo in giro per l’Italia a fare il facchino: si partiva col camion e si tornava dopo qualche giorno. Poi con il mio amico Alverio ho attaccato i numeri civici di Tolentino, dove avevano cambiato la toponomastica: tutto il giorno con il trapano in mano. Con Remo ho fatto l’imbianchino. Poi il cameriere per anni». Insomma, si è sempre dato da fare.
«È questo che mi porto dentro. E venire a “Ballando”, lavorare, provare e faticare non mi spaventa».