ERMANNO OLMI Il regista contadino che incantò il mondo
Il silenzio, la solitudine e la povertà si addicono al cinema? Nel caso di Ermanno Olmi sicuramente sì. Il regista bergamasco, malato da tempo, ci ha lasciato il 5 maggio. Era diventato celebre in tutto il mondo nel 1978, quando uscì «L’albero degli zoccoli», l’indiscusso capolavoro con cui vinse il Festival di Cannes. Ma già da ragazzo, girando dei documentari sul mondo del lavoro per conto della Edison-Volta (dove era stato assunto inizialmente come fattorino), aveva messo in mostra quelle qualità che caratterizzarono tutto il suo cinema: l’interesse sincero e onesto per le condizioni degli umili, la capacità di commuovere cogliendo la verità in piccoli gesti e pochissime parole. Una capacità da poeta. «L’albero degli zoccoli», ambientato alla fine dell’Ottocento in una cascina lombarda, raccontava il mondo contadino delle sue origini, con attori non professionisti che recitavano in dialetto. Più «internazionale» «La leggenda del santo bevitore», ambientato a Parigi, tratto da un racconto di Joseph Roth e interpretato da Rutger Hauer. Il film, che vinse il Leone d’oro al Festival di Venezia nel 1988, metteva in luce un altro elemento importante dell’arte di Olmi: una profonda fede religiosa. Sempre a Venezia avrebbe poi ritirato un secondo Leone d’oro, quello alla carriera, nel 2008.
Tra gli altri titoli di una prestigiosa carriera vanno ricordati almeno «Il posto» (1961), che per primo lo fece notare, «Il segreto del bosco vecchio» (1993), tratto da un romanzo di Dino Buzzati e con Paolo Villaggio, «Il mestiere delle armi» (2001), «Centochiodi» (2007) con Raz Degan e «Torneranno i prati» (2014), che commemorando le sofferenze della Grande guerra, lanciava un ultimo, accorato appello alla pace.