PIPPO BAUDO
«ADDIO MAESTRO CARUSO, COMPAGNO DI MILLE AVVENTURE»
Èun giorno triste per me. Molto triste» ammette Pippo Baudo. Sono da poco terminati i funerali del suo amico, il maestro Pippo Caruso, e il conduttore appare davvero provato. «È stato l’uomo più importante della mia vita di artista, il rapporto professionale più formativo. Pippo mi ha insegnato davvero tanto».
Quando vi siete conosciuti?
«Al ginnasio a Catania. Io volevo già lavorare nello spettacolo e presentavo i veglioni e le serate di Carnevale. Lui aveva una band, suonava il basso, all’inizio, poi ha cominciato anche con la chitarra e il pianoforte. Un po’ lo invidiavo, nel senso migliore del termine, perché era bravissimo e faceva concerti in giro per la Sicilia. Finché un giorno Dora Musumeci, la grande pianista jazz, lo notò e lo portò via».
Dove?
«Nei locali più famosi di tutta Italia. La sua raffinata orchestra aveva musicisti internazionali e riusciva a spaziare tra tutti i generi musicali. E poi aveva un segreto...».
Siamo curiosi, ci dica quale.
«Ogni musicista suonava due o tre strumenti: in questo modo l’orchestra cambiava suoni e registri. Pippo Caruso e la sua orchestra erano richiestissimi anche all’estero. Andò in America e lì ci incontrammo di nuovo».
Come andò?
«Lui suonava con l’orchestra sulle navi da crociera che partivano da New York per raggiungere i Caraibi e tornare indietro. Suonavano qualsiasi genere: dal jazz al musical, alla lirica… erano molto apprezzati. Nel 1972 ci siamo incontrati casualmente a New York e gli ho detto: “Pippo, devi tornare in Italia, dobbiamo lavorare insieme”».
Riuscì a convincerlo?
«Ci pensò su. Lì era molto richiesto e tornare nel nostro Paese rappresentava un’incognita. Ma si fidò di me. E nel 1973 debuttò a “Canzonissima”».
E poi cosa è successo?
«Praticamente ci siamo “sposati” e siamo rimasti insieme per 40 anni!».
Sempre d’amore e d’accordo?
«Sempre. Mai uno screzio, una litigata, un’incomprensione. Pippo era un uomo mite, modesto, pur consapevole delle sue straordinarie capacità che gli venivano riconosciute da tutti».
Vi somigliavate?
«Nella passionalità. Ci buttavamo nelle cose da fare con dedizione totale. Passavamo notti intere a lavorare tra piano e spartiti. E se mi veniva un’idea, dopo mezz’ora lui aveva già pronta la canzone».
In cosa eravate invece diversi?
«Lui era un solitario. Quando non lavorava amava stare a casa, in campagna, gli piaceva la meditazione. Io sono più “caciarone”. Eppure eravamo sempre in sintonia».
C’era confidenza tra voi?
«Molta. Ricordo quando si innamorò pazzamente di Greta, la donna che gli ha riempito la vita e di cui è stato marito
innamoratissimo. Lei viveva a Torino e lui decise, testardo com’era, di convincerla a trasferirsi con lui a Roma. Mi chiese: “Vieni con me?”. Prendemmo il treno, scendemmo a Torino Porta Nuova e arrivammo all’abitazione di Greta. Lui salì e io rimasi ad aspettarlo sotto casa».
Altri ricordi che vi legano?
«Facemmo una tournée in America. Ogni sera libera la passavamo a teatro, tra musical e concerti. E poi a cena. Ricordo che una sera volle a tutti i costi andare in un ristorante austriaco: amava sperimentare le cucine straniere. E così finimmo a mangiare gulasch (spezzatino tipico della cucina ungherese che ha anche una versione austriaca, il rindsgulasch, ndr) a New York».
E a lei piaceva sperimentare in cucina?
«Macché. Mi costringeva ( ride). Gli piacevano molto le specialità cinesi e giapponesi. È solo grazie a lui che ho imparato a conoscere gli involtini primavera cinesi. Ma io ho sempre preferito andare sul sicuro con la cucina tradizionale italiana».
Era un uomo curioso.
«Sì. Mi ha sempre sorpreso come in un paese piccolo in provincia di Catania possa essere nato un uomo con una mente così vasta e straordinaria. Parlava correntemente inglese, francese e tedesco. Ricordo che a un Festival di Sanremo Gilbert Bécaud, dopo aver ascoltato l’arrangiamento di Pippo della canzone “C’est en septembre”, rimase muto per la meraviglia, lo abbracciò e mi disse: “Lo porto via con me!”. E io: “Non se ne parla proprio!”».
E il suo look da moschettiere?
«Fui proprio io a soprannominarlo D’Artagnan».
Cosa ammirava di più del suo amico e collega?
«La meticolosità, che poi è anche la mia. Noi siamo nati per fare questo lavoro e di questo lavoro eravamo malati. Non c’era tempo di fare altro: quando ci incontravamo per lavorare a un concerto, passavamo intere giornate immersi nella musica e ci scordavamo pure di mangiare».
E negli ultimi tempi?
«Lo chiamavo spesso, anche due o tre volte al giorno, con la scusa di chiedergli di questa o di quella canzone. In realtà volevo solo tenere accesa la sua curiosità. E sa una cosa? Fino alla fine era così informato e aggiornato che era lui a suggerirmi di ascoltare dei pezzi che lo avevano colpito. La musica lo ha accompagnato per tutta la vita».