TV Sorrisi e Canzoni

Pietro Sermonti

Torna con gli altri protagonis­ti della terza stagione di «Tutto può succedere» ......

- di Solange Savagnone

Difficile fare mente locale mentre sei sul set di un altro film: «Stavo girando una scena in macchina con uno stuntman per un film della Warner che uscirà a fine novembre, con Sarah Felberbaum, Nino Frassica e Lucia Ocone» si giustifica Pietro Sermonti che per la terza volta torna nei panni di Alessandro Ferraro in «Tutto può succedere», dall’11 giugno su Raiuno (e in anteprima on line su RaiPlay dal 5 giugno). «Ho girato la serie un anno fa e non ricordo praticamen­te nulla!» ci confessa mentre addenta qualcosa durante una pausa. Allora glielo rammentiam­o noi. Nel remake di «Parenthood» interpreta il primogenit­o di Ettore ed Emma, ha tre fratelli: Sara, Carlo e Giulia. È sposato con Cristina e ha tre figli: Max, Federica e Maria.

Faccia uno sforzo di memoria. Cosa succederà ad Alessandro?

«Rimette la cravatta. Dopo essersi vestito come Renzo Arbore nella seconda stagione, per gestire il locale con il fratello Carlo, ora diventa il pezzo grosso di un’azienda. Ci saranno problemi clinici che inciderann­o sulla sua vita, in più ha una bimba piccola e due figli grandi da gestire. Con tutti i guai e le tensioni del caso».

La difficoltà più pesante che dovrà affrontare?

«Spiegare al figlio Max che ha la sindrome di Asperger. Ormai è grande e si rende conto di essere malato di autismo».

Una bella responsabi­lità raccontare questa malattia in una fiction…

«Mia cugina argentina, una neuropsich­iatra infantile, è una luminare in questo campo. Abbiamo chiacchier­ato a lungo. Questo personaggi­o c’è anche nella serie americana perché uno degli autori ha un figlio malato di Asperger».

Dopo tre stagioni, quanto è legato al suo personaggi­o?

« Visceralme­nte, perché è un uomo che stimo profondame­nte. Mi sembra un eroe civile, mi piace la sua tenacia amorosa. In apparenza ha tutto sotto controllo, ma poi sbotta e questo lo rende umano e fragile. È innamorato fol- lemente di sua moglie e dei suoi figli. Mi piace fare personaggi così diversi da me».

Insomma, è sempre il solito figlio-padre-marito perfetto che conosciamo?

«In realtà, no. Nella versione americana è più o meno sempre lo stesso, qui invece ha una “sbandatina” platonica per un’altra. E questo mi ha devastato. Ho sofferto per questo suo “deragliame­nto” perché sentivo che non era totalmente fedele al personaggi­o che avevo interpreta­to per due anni. Ma dovevo

raccontare una storia, senza giudicare il personaggi­o».

Invece umanamente come lo giudica?

«In questa occasione si comporta da vigliacco: non ha il coraggio di vivere questa avventura, prendendos­i la responsabi­lità delle conseguenz­e, e si giustifica coi sensi di colpa. Mi fa cascare i capelli, anche se ne ho pochi. È più vicino a me un lottatore di sumo del Senegal che non lui!».

Lei però non vive una situazione come la sua.

«Infatti per me interpreta­re un uomo sposato con dei bambini è un’esperienza nuova. Nella fiction mi piace fare il papà geloso e premuroso. Nella realtà non ho figli, non so cosa voglia dire, ma c’è un’analogia con me. Avevo una sorella più grande, malata gravemente, che è morta quando aveva cinque anni. Così per interpreta­re un padre che deve affrontare la malattia del figlio, mi sono ispirato ai miei genitori».

A tutti e due?

«Sì, sono il ritratto di en- trambi. Come carattere assomiglio a mio padre Vittorio. Ho lo stesso atteggiame­nto giocoso e modo di scherzare. Invece da mia mamma ho preso il fisico, siamo uguali. Per fortuna lei non ha la barba! Ma sono anche tosto come lei che, venendo da una famiglia di militari, ha un grande senso del dovere, è puntuale, seria. Io sembro un buontempon­e, in realtà sono molto “prussiano” da questo punto di vista e rispetto il tempo degli altri».

Mentre girava la

seconda stagione è mancato suo papà…

«Era fine novembre 2016. Sono tornato sul set pochi giorni dopo il funerale e dovevo fare una scena sciocca, chiamare papà un altro: un incubo. Tutti hanno visto quel dolore nei miei occhi e mi sono stati vicini come una famiglia. Andare sul set e sentire il loro affetto mi è servito tantissimo, li ringrazier­ò per tutta la vita».

Il suo progetto di mettere su famiglia che fine ha fatto?

«Ormai sono un signore di 46 anni. La mia vita è quella che è ed è la più bella che possa avere, sono fortunato. Da 15 anni non ho più rimpianti se non di aver smesso di giocare a calcio per un infortunio. Non guardo più lo specchiett­o retrovisor­e».

Dove si sente a casa?

«Vivo a Roma, da solo. La mia vita procede bene, è bella. Non mi lamento. Sono un vecchio ciccione, poco appetibile. Ho cambiato casa da circa tre anni e finalmente da un annetto mi sento a casa, mi sento bene, vedo il cielo, il verde, i gabbiani. Me la godo tantissimo. Ho il ping pong in terrazzo e bombardo i vicini con le palline…».

La solitudine la spaventa?

«È la cosa che temo di meno al mondo. È un mio tratto caratteria­le. Ho dovuto imparare a gestire presto la solitudine, per via di mia sorella che impegnava i miei a tempo pieno. Il mio migliore amico era il pallone».

In quale direzione vanno oggi i suoi sogni?

«La mia vita non è molto lontana dai miei sogni. Uno di questi è raccontare delle belle storie girate e recitate bene. Un altro sarebbe dedicarmi a uno sport meglio che posso, e non escludo che possa essere il ping pong! Chi è giocatore dentro, lo rimane per sempre, fino alla morte. Giocare salverà il mondo ed è curioso che per gli inglesi i verbi recitare, giocare e suonare si traducano con la stessa parola: “play”».

Giocando sul titolo della serie, cosa spera che accada di bello e impossibil­e nella sua vita?

«Che prima o poi la Juventus vinca la Champions League. Se dovessi scegliere tra un David di Donatello come migliore attore e la Coppa dei Campioni non avrei dubbi: sarebbe un’emozione imparagona­bile. Ma è un falso problema perché non accadrà nessuna delle due cose».

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PIETRO SERMONTI (46) È ALESSANDRO

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