TV Sorrisi e Canzoni

E già al lavoro per la nuova serie di «Meraviglie»

ALBERTO ANGELA prepara le nuove puntate dei suoi programmi e rivela come, quand’era ancora piccolo, è nata la sua voglia d’avventura

- di Alex Adami

Riconoscim­enti, premi, cittadinan­ze onorarie, e, soprattutt­o, l’affetto del pubblico. Quel pubblico che, terminate da un mese appena le puntate di «Ulisse», già lo reclama. E Alberto Angela lo accontenta: ha appena chiuso la valigia e si è rimesso in viaggio verso i luoghi straordina­ri protagonis­ti della nuova serie di «Meraviglie» in onda in primavera su Raiuno.

Alberto, portare la cultura in onda su Raiuno il sabato in prima serata con «Ulisse» è stata una scommessa vinta.

«L’idea era audace: quando i vertici Rai me l’hanno proposto ho accettato subito pur sapendo che era rischioso. Nessuna rete pubblica in Europa lo fa. Però era anche una grande occasione. E ho pensato che fosse più importante fare cultura il sabato sera che preoccupar­si degli ascolti». Che comunque hanno raggiunto quasi il 20%… «Con argomenti come l’arte del Rinascimen­to, l’archeologi­a, la storia dell’Ottocento e anche una tragedia come l’Olocausto nazista ai danni degli ebrei. Il sabato sera certamente non è la sua collocazio­ne ideale dal punto di vista di chi cerca l’ascolto, ma dal punto di vista di chi cerca le coscienze sì».

Il programma ha ottenuto un grande riscontro sui social network, con mezzo milione di interazion­i: siete riusciti ad arrivare ai giovani con la cultura.

«I ragazzi la television­e non la guardano più ma “Ulisse” è un programma che li fa ritornare non tanto alla tv, ma ai temi che fanno ragionare. E questo è il più grande successo: aver stimolato i ragazzi a pensare».

Il pubblico reclama più puntate: sembra che quattro a ciclo siano poche. «È una questione di sopravvive­nza umana: realizzare una puntata è come fare un film».

Quanto tempo ci vuole per realizzare una puntata? « Almeno un mese. Lavorando in parallelo: il giorno si gira, la sera si fa il montaggio. E il lavoro grafico procede di pari passo. Non ci si ferma mai. Anche a noi piacerebbe fare di più ma il massimo che possiamo fare è questo, puntando sulla qualità e non sulla quantità».

E in effetti lei è di nuovo in viaggio. Quanto tempo impiega a fare la valigia?

«Una mezz’oretta. Posso farla anche al buio, so esattament­e dove mettere le cose. Come fanno quelli che smontano e rimontano un motore a occhi chiusi. La difficoltà è che i nostri set possono essere uno dopo l’altro, con climi caldi, freddi, piovosi. E allora devi avere l’essenziale per qualunque situazione».

La valigia è sempre la stessa?

«Sì, una valigia storica, che mi conosce e mi segue da tanto tempo…» ( ride). Ha un suo metodo per riempirla?

«Prima stendo tutto sul letto, poi piego e metto in valigia. Sempre con la stessa disposizio­ne». Quello che non manca mai?

«Una piccola bussola portafortu­na a cui sono affezionat­o. E poi, per i vestiti di scena, il ricambio: ho due capi uguali di tutto. Devo prevedere che si possano macchiare, strappare, rovinare».

Qual è il viaggio da ragazzo che l’ha portata a decide-

re di fare del viaggio un lavoro? «Non ce n’è uno, io ho sempre viaggiato tanto con i miei genitori e con mia sorella, fin da bambino. Sono nato a Parigi, quando avevo due anni ci siamo trasferiti in Belgio e lì sono rimasto quattro anni. In quel periodo abbiamo fatto diversi viaggi in Normandia, in Svezia, in Olanda. Oggi arrivare in Svezia è come andare sul Grande Raccordo Anulare di Roma, ma negli anni ‘60 era la stessa cosa che andare oggi in Sudamerica. Ma di quel periodo non ho grandi ricordi. Di viaggi ne ricordo bene due, ma ero più grande». Quali?

«Avevo 14 anni e siamo andati nel Ladakh, una regione dell’Himalaya, una zona che avevano appena aperto e noi eravamo tra i primi turisti ad arrivare. Un viaggio fatto con zaino e sacco a pelo in spalla, avevamo affittato un vecchio torpedone scassato e ricordo che l’autista pregava sempre mentre guidava su questi sentieri sterrati a strapiombo. Ma in India era una cosa normale. Fu un viaggio istruttivo». E l’altro?

«L’anno successivo siamo andati in Indonesia a visitare un’isoletta che si chiama Nias, dove c’era una tribù di ex tagliatori di teste. Ci siamo arrivati con un giorno e una notte di navigazion­e a bordo di un vecchio cargo senza radio, senza scialuppe, senza niente. Andava nell’isola per portare gli uomini che prendevano il lattice per fare la gomma e restava lì per qualche giorno. Mentre loro caricavano, noi andavamo in giro per l’isola a conoscere quella popolazion­e».

Di certo non si trattava di una meta propriamen­te turistica… «All’epoca ancora no, era il 1977. Abbiamo dormito nella casa del capo comunità come ospiti, c’erano sculture di legno ovunque. Anche lì zaini, sacchi a pelo, nessun albergo. Ma ho visto bellissime danze tribali, balli rituali con gli scudi. Ricordo tutto nitidament­e. Così come ricordo il ritorno…».

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