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Parla il veterano professore di «Amici»

«Insieme ci completiam­o. Lo so, a volte sembro duro con i ragazzi, ma è solo per farli crescere. E dopo mi ringrazian­o» di Andrea Di Quarto

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L’oliata macchina di «Amici» ha ormai ripreso a girare a pieno ritmo e tra i professori del talent show di Maria De Filippi, con nove partecipaz­ioni, è Rudy Zerbi a recitare il ruolo di veterano. Rudy, a questo punto può aspirare al ruolo di preside.

«Ho sempre sperato di far parte di una scuola, del mio lavoro è l’aspetto che amo di più. Perché mi permette di stare vicino alla musica e vicino ai giovani, quelli che mi fanno essere sempre aggiornato. Io penso da sempre che la musica più bella sia quella ancora da scrivere. Se si resta indietro, a un certo punto ci si inaridisce».

Nei talent si usano per lo più le cover di brani già noti. In questo «Amici» è diverso.

«Sì, perché ogni anno i ragazzi possono scegliere se presentars­i con degli inediti. Le cover però servono, è giusto che ci siano. Siamo una scuola e una scuola deve avere degli standard e proporre degli obiettivi per crescere. Eseguire le cover a modo tuo, con il tuo stile, ti permette di crescere e di avventurar­ti su nuovi territori. È importante: in questo modo i ragazzi aumentano la loro cultura musicale e capiscono l’importanza degli arrangiame­nti e della produzione. Se hai un marchio, un timbro, si deve sentire anche nelle cover. Quando ascolti “Generale” cantata da Vasco Rossi, è una canzone di Vasco, non una copia di Francesco De Gregori. E questa è la cosa che fa la differenza tra un cantante qualunque e un artista». I talent facilitano il lavoro dei discografi­ci? «Se una casa discografi­ca punta solo sui talent sbaglia strada. Però è evidente che con gli show tv un’etichetta può sviluppare un artista che ha già un “avviamento”, una fama e un’impostazio­ne. È un grande risparmio sia di tempo sia di denaro, perché lanciare un artista costa anni e milioni d’investimen­to. Questa è una cosa che le case discografi­che hanno capito tardi. Io fui il primo, come discografi­co, a scommetter­e sui talent: mi dicevano che così andavo verso un mondo nazional-popolare. Dopo pochi mesi, dopo l’esplosione della Amoroso, sono arrivati tutti...».

Lei è un coach molto diretto. Con i ragazzi sa anche essere duro.

«Sono così perché sento molto il peso che i miei giudizi hanno sul loro futuro. Sono serio, detesto quando i giudici dicono: “Ti elimino, ma avrai una grande carriera fuori da qui”. Non ha senso. Penso che quei miei “no” un po’ aspri abbiano una coerenza e dovrebbero aiutare a crescere. Mi fa felice che la maggior parte dei ragazzi siano poi venuti a dirmi, una

volta fuori, che quelle parole sono servite. Questo è lo scopo del professore di “Amici”. Anche a scuola la sua funzione non dev’essere quella del simpatico». Come va con gli altri professori?

«Ognuno fa il proprio percorso, ma sento di poter dire che mai come quest’anno la scelta è stata azzeccata. Copriamo tutto lo spettro: io ho un approccio da produttore, Stash è stato un concorrent­e di “Amici”, sa cosa si prova perché lo ha vissuto in prima persona. Alex Britti oltre che un cantante è anche un grande musicista. Non è un lavoro semplice: devi lasciare da parte il tuo ego e mettere la tua esperienza a disposizio­ne di chi hai davanti».

Alcuni concorrent­i hanno già avuto esperienze in programmi per aspiranti cantanti o a «Sanremo Giovani». Non c’è il rischio di creare dei profession­isti del talent?

«Teoricamen­te sì, ma quelli li becchi subito, interpreta­no il canto come un esercizio ginnico e non come un’espression­e artistica. Poi c’è chi ha fatto un percorso e cerca di correggere con la scuola quello che ha sbagliato, o che ancora gli manca. Se ha fatto Sanremo o un talent e le cose non decollano vuol dire che serve ancora un pezzo. Ammetterlo e dire: “Torno a scuola” è un gesto d’umiltà».

Se Thoeni e i vigliacchi del liscio, il gruppo di rock demenziale con cui si esibiva negli Anni 90, si fossero presentati ad «Amici», quale colore di felpa avrebbe indossato? «Quella marrone, che non esiste» ( ri-

de). La nostra era solo una presa in giro dei cantanti veri: niente di serio...». Ma lei aveva velleità artistiche?

«Sì, lo ammetto. Avevo il mio gruppo e volevo fare il cantante. Suonavamo le canzoni dei Police. Quando ho capito che non avevo il talento, però, ho cominciato a prendere in giro me stesso su tutti gli stereotipi del cantante. Da lì è arrivata la radio, poi il lavoro da manager in una grande casa discografi­ca. E poi ancora la radio...». Qual è stato il suo maggior successo come discografi­co?

«Aver fatto cantare per la prima e unica volta insieme Mina e Ornella Vanoni, due eterne rivali (il brano, “Amiche mai”, era scritto da Andrea Mingardi e uscì nel 2008, ndr). Una cosa che rimarrà nella storia della musica italiana». La svista più grande, invece? «A rischio di apparire superbo, non ne ricordo di clamorose. Al contrario, ho puntato su Giusy Ferreri, che all’epoca usava il suo nome Gaetana, con un singolo che fu rifiutato da tutti ( si trattava di “Party”, scartato alle selezioni per le Nuove proposte di Sanremo 2005, ndr). Ero convinto che avrebbe avuto un grande futuro e ci rimasi male, pensavo di aver sbagliato. Poi invece Giusy partecipò a “X Factor” ed ebbe un grande successo. Evidenteme­nte avevo visto giusto...». È padre di quattro figli maschi. Musicalmen­te c’è un conflitto generazion­ale?

«Affatto. I miei figli sono grandi talent scout, mi hanno rubato il lavoro. Mi dicono mesi prima quello che funzionerà. Io Ghali l’ho scoperto grazie a loro molto prima che avesse successo». ■

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AMICI 18 CANALE 5 sabato ore 14.10
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