Segreti e manie del reality di Raidue
Un reality ha reso attraente per i ragazzi un luogo che per tanti genitori è stata una... minaccia
C « os’è l’olio di fegato di merluzzo, mamma? E i movimenti del ’68 cosa sono? Come fanno i ragazzi a non usare il cellulare?». Sono solo alcune delle domande che mia figlia Lucrezia, 11 anni, mi ha fatto durante la prima puntata di “Il collegio 3”. Se avete un ragazzo o una ragazza che frequenta le medie o i primi anni delle superiori probabilmente sapete già di cosa parlo. Il programma di Raidue, realizzato con MagnoliaBanijay Group, è un esperimento televisivo e sociale e seguirlo insieme ai nostri figli può essere una buona idea, perché offre tanti spunti di confronto tra i “nostri” tempi e i “loro”.
E non è un caso che “Il collegio” sia un successo soprattutto nella fascia di età tra gli 11 e i 16 anni. Diversi protagonisti delle stagioni precedenti sono diventati degli “influencer” seguiti da centinaia di migliaia di ragazzini. Una su tutti, Jenny De Nucci, “collegiale” della prima edizione: con i suoi quasi due milioni di follower su Instagram e su “Tik Tok” (ex Musical.ly) è diventata attrice (“Un passo dal cielo 5”) e ha anche scritto un romanzo. Dagli Anni 60 all’era digitale è un attimo, insomma. A varcare il cancello del Collegio Convitto di Celana a Caprino Bergamasco sono 20 ragazzi di età compresa tra i 14 e i 17 anni. In realtà chi non passa il test di ingresso con domande di educazione civica (vedi box sotto) deve subito uscire (in questa stagione è successo a due ragazzi). I 18 protagonisti vivono cinque settimane seguendo le regole di abbigliamento, di comportamento e di studio dei loro coetanei del 1968. Un trauma: entrano con i jeans strappati, le minigonne, le maglie scollate, i tacchi, le catenine e i braccialetti e si ritrovano dopo poche ore a indossare la severa divisa del collegio: giacca, camicia, cravatta, pantaloni e mocassini per i ragazzi. Giacca, camicia, cravatta, gonna al ginocchio, calzettoni bianchi lunghi e ballerine con tre centimetri di tacco per le ragazze. Il primo ostacolo, per tutti, è il nodo alla cravatta.
Non c’è il tempo di abituarsi alla nuova divisa che arriva uno dei momenti più dolorosi dell’esperienza: il distacco dagli oggetti personali.
I ragazzi sono costretti a consegnare ai sorveglianti del collegio tutto quello che di personale si sono portati in valigia. Addio alla piastra per i capelli, a ogni tipo di
trucco e profumo e soprattutto all’oggetto con cui passano più tempo: il cellulare. Questo, va detto, sarebbe difficile anche a noi adulti.
Arriva poi il barbiere-parrucchiere. E qui scorrono altre lacrime. Addio a ciuffi scolpiti e treccine etniche e benvenute sfumature alte e acconciature rétro.
E a tavola? Il menu di “Il collegio” non è quello di Cannavacciuolo. Piatti forti? Testina di vitello, rane fritte, rognone. E più che nelle bocche dei ragazzi finiscono nelle tasche delle loro divise.
La vita al collegio prosegue impermeabile ai fermenti rivoluzionari del ’68. I ragazzi poco a poco sembrano abituarsi alle regole rigide, alle lezioni e persino al telefono “a disco”, un oggetto misterioso dal funzionamento nemmeno così intuitivo. Mia figlia Lucrezia prova a capirlo, ma un telefono così proprio non l’ha mai visto in vita sua. E aggiunge: «Mamma, ma la rubrica in quel telefono non c’è?». No. La nostra rubrica era la memoria.