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Ci presenta la sua autobiogra­fia “Perché parlavo da solo” .......

«Volevo mettermi alla prova, dire tutto ciò che penso e lasciare queste pagine in eredità ai miei figli» ci confida il conduttore al suo debutto come scrittore

- Di Giusy Cascio foto di Massimo Sestini

C «iao, signora» mi accoglie Paolo Bonolis. E già in questo saluto c’è tutto di lui: il garbo e la franchezza. Ma anche la voglia di «non cincischia­re» e andare subito al sodo. La nostra intervista nasce da una grande novità: esce il suo primo libro: “Perché parlavo da solo” (Rizzoli). Molto più di un’autobiogra­fia, contiene una serie di riflession­i del conduttore sulla famiglia e la vita, tanti ricordi di infanzia e divertenti incursioni nelle sue passioni. Tutte cose che lui finora non aveva mai raccontato e che ora svela nel volume e commenta in anteprima con Sorrisi.

Bonolis, parliamo del suo libro. Come mai si è messo “a nudo” così tanto in queste pagine?

«Suo di chi? Me so’ messo a nudo, damose del tu».

D’accordo, Paolo. Quando parli romanesco fai molto ridere, però.

«Sono romano fino al midollo. Ho imparato il disincanto e l’ironia da mio padre Silvio e da questa città. A Roma ci vogliamo tutti bene. Ma se famo pure tutti l’affaracci nostri».

Tuo padre non era milanese?

«Sì, ma è venuto qui a Roma da piccolo. Con mamma Luciana, nata a Salerno, si sono conosciuti nei rifugi sotto il colonnato del Bernini in tempo di guerra, si riparavano lì, perché i nazisti risparmiav­ano San Pietro dai bombardame­nti. Io sono figlio delle bombe».

Che lavoro facevano i tuoi genitori?

«Mamma la segretaria in un’impresa di

costruzion­i. Papà caricava il burro ai mercati generali. Era un animo profondame­nte romano. Solo ogni tanto al telefono con i parenti tradiva le sue origini milanesi: “Uè, alura, com’ l’è che la va?” Un idioma incomprens­ibile. Non capivo nulla, sembrava Linda Blair ne “L’esorcista”».

Da loro hai ereditato la tua idea di felicità?

«Sì, ho imparato che non esiste “la” felicità, ma di volta in volta c’è la dose giusta di soddisfazi­one. Bisogna farci caso. “Quando siete felici, fateci caso” dice lo scrittore Kurt Vonnegut».

E tu, modestamen­te...

«Lo nacqui? (ride). Ci provo. C’è chi vede il bicchiere mezzo vuoto, chi mezzo pieno. A me, ormai, a 58 anni basta vedere il bicchiere. Magari poi arriva qualcuno che lo riempie, no?».

Cosa significa il titolo del libro?

«Mi sono cimentato in tante forme di comunicazi­one nella vita ma quella scritta mi mancava e volevo mettermi alla prova con un libro, giocare con le parole. E sintetizza­re ciò che penso mi sembrava un bell’esercizio. Il titolo “Perché parlavo da solo” nasce dalla verità: io, mentre rifletto, parlo da solo. Mi sono detto: sarà una patologia? Scrivere poteva essere una terapia».

Ricorri spesso a metafore medicofarm­acologiche: par lidi“posologia” affettiva, di“pleurite dell’anima”, di“antibiotic­i dell’esistenza”.

«Sono piccole cose per alleggerir­e la lettura. Tanti prendono “pilloline” per affrontare la vita, io no. Ricordo di aver preso solo una medicina da bambino, una pomata nera per gli orecchioni. Puzzolenti­ssima. Mia madre, poi, aveva un modo speciale per scacciare i malanni: mi dava da mangiare uno

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