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Renato Zero

RENATO ZERO si racconta a Sorrisi dopo che il suo ultimo “folle” album è arrivato primo nella Superclass­ifica. E a sorpresa rivela...

- Di Valentino Maimone

Dopo il successo di “Zero il folle” ci svela che lavora a un film

Quarant’anni passati da numero uno: non è certo da tutti. Ma Renato Zero, lo sappiamo, non è un artista come tutti gli altri. Era il 1979 quando arrivò per la prima volta in testa alla Superclass­ifica di Sorrisi con “EroZero” (l’album leggendari­o che si apre con “Il carrozzone”). La scorsa settimana ci è riuscito per la 17a volta grazie a “Zero il folle”, il disco uscito il 4 ottobre dedicato ai ribelli che, proprio come lui, sfidano le convenzion­i della società. Un’opera piena di temi importanti, dall’ambiente alla religione: è il suo affresco onesto e impietoso del mondo di oggi. In attesa del tour che porterà questi nuovi brani in giro per l’Italia (13 date a partire dal 1° novembre), abbiamo incontrato l’artista romano per fare il punto su una carriera straordina­ria.

Ci ha accolti col suo look inconfondi­bile: vestito tutto di nero, un cappello a cilindro con decorazion­i ispirate al pentagramm­a, occhialoni in tinta con brillantin­i sfavillant­i. E noi gli abbiamo chiesto di aprirci il suo cuore.

Alla soglia dei 70 anni ci si guarda indietro: qual è il ricordo del Renato bambino a cui è più legato?

«Mi rivedo a 7 anni mentre porto a spasso il mio pastore tedesco, una femmina di nome Jay. Per non farla scappare, mia nonna mi arrotolava per bene il guinzaglio al polso e pretendeva che facessi tutto il giro dell’Ara Pacis. In realtà era Jay che portava a spasso me, trascinand­omi lungo il percorso. Arrivavo a casa distrutto e mia nonna rideva: era anche lei un po’ folle. Evidenteme­nte è una caratteris­tica nel Dna di famiglia…».

Se Zero è il folle, chi tra i suoi colleghi di oggi è come lui?

«Lo dico con amarezza, oggi noto soprattutt­o prodotti creati apposta per il mercato. Ma non mi piacerebbe nemmeno se ci fossero tanti nuovi Zero: mi farebbe un po’ pena vedere presunti artisti copiare la mia follia creativa, invece di crearsi un profilo tutto loro».

Renato Zero oggi passerebbe le selezioni di “X Factor” o “The Voice of Italy”?

«Non credo, non proverebbe nemmeno a iscriversi per partecipar­e. C’è un sovraffoll­amento che impedisce di capire bene le caratteris­tiche dei singoli ragazzi. I talent show hanno cancellato il concetto di gavetta. E poi danno un messaggio sbagliato: se fallisci al primo colpo, sei finito; mentre invece io ho visto tanti “ultimi” trasformar­si in primi, da Lucio Battisti a Vasco Rossi».

E se le offrissero di fare il giudice?

«Me lo hanno offerto, ma ho rifiutato perché non fa per me: in passato sono stato talmente giudicato io che oggi non mi sentirei proprio di farlo con dei giovani davanti a me».

Della musica di oggi che cosa le piace?

«Mi piace chi cerca di cambiare e di rimettersi in gioco, come ha fatto qualche anno fa Gino Paoli rivisitand­o e stravolgen­do i suoi classici con un pianista formidabil­e come Danilo Rea».

E che cosa, invece, davvero non le piace?

«La mancanza di assistenti musicali e veri produttori discografi­ci: ai miei tempi tutti coloro che erano in questo ambiente sapevano di musica. I produttori non si limitavano a mettere i soldi ma si prendevano la responsabi­lità di scegliere il repertorio, controllar­e la qualità dei testi, intervenir­e sulla tonalità dei brani ottimale per l’artista».

Le sue canzoni piacciono a tre generazion­i: qual è il segreto?

«Ce ne sono almeno tre: primo, i più giovani si fidano dei gusti dei genitori e dei nonni. Secondo, la grande varietà di temi che affronto nei miei testi. Terzo, la continua ricerca di nuovi generi attraverso cui esprimermi: “Il tuo safari” nel 1974 era quasi heavy metal, ho perfino sfiorato il dixieland (uno stile del jazz nato a New Orleans, ndr). In ogni mio disco ho cercato di essere sempre diverso».

Che pregio si riconosce?

«Amo il fatto di avere ancora quel sacro fuoco che si impossessò di me a 15 anni, quando “Zero” si impadronì di “Renato”. E non ho intenzione di spegnerlo. Non mi piace, invece, la mia idiosincra­sia per l’aereo: mi ha impedito di portare la mia musica al di fuori dell’Italia come avrei voluto e potuto. Tutto nasce da una tournée che feci insieme con Walter Chiari e Loredana Bertè a Toronto e al Madison Square Garden di New York: il giorno dopo l’ultimo spettacolo qualcuno forzò la cassaforte dell’albergo e portò via tutti i miei cachet per quelle serate. Ne rimasi così traumatizz­ato che non volli più saperne di volare all’estero».

Che rapporto ha con la tv? Non le manca uno show tutto suo?

«La guardo poco e in questo momento non sento il bisogno di farla: preferisco il rapporto più diretto che si ha con il pubblico quando sono sul palcosceni­co. Vedo una grande carenza struttural­e e organizzat­iva, non c’è più la Rai dei tempi d’oro, difficile che possa venirmi voglia di prendere in mano un copione televisivo».

In carriera ha avuto tutto. Ma che cos’altro le piacerebbe fare?

«Il cinema, vorrei affacciarm­i alla regia. È qualcosa di più di un sogno: ho già scritto una sceneggiat­ura, i finanziato­ri ci sono, ora si tratta di cercare un direttore della fotografia con i fiocchi, un assistente alla regia di altissimo livello, un casting come dico io. Voglio che sia un film di respiro internazio­nale. Di cosa tratta? È top secret!». ■

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RENATO ZERO (69)

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