Vanity Fair (Italy)

Ancora trenta metri!

È da anni leader della comunicazi­one e della pubblicità. Ama le sfide e lavorare con le donne. Ecco come MARIO MELE affronta la «nuova rivoluzion­e» e i cromosomi mutati dei consumator­i

- di SARA FAILLACI

Nel mondo della comunicazi­one c’è stata una prima rivoluzion­e negli anni Ottanta, con l’avvento della Tv privata, ma quella in atto oggi è cento volte più potente. Perché non arriva dagli addetti ai lavori, ma dalla gente, e a noi di rimbalzo». A parlare è Mario Mele, un signore che nella comunicazi­one lavora da quasi cinquant’anni e che oggi che è prossimo a compierne settanta ha ancora lo stesso vispo occhio azzurro di quando, ventenne, da Foggia salì al Nord per studiare biologia, e invece finì nella sala stampa di Torino Esposizion­i a passare notizie ai giornalist­i. All’ultimo piano del palazzo dove ha sede la Mario Mele & Partners ha allestito un vero e proprio pub, dove – anziché servire birra – conduce i suoi «tè del lunedì»: intervista direttori di giornali (il nostro incluso), editori, influencer su Tv e web, sui grandi cambiament­i che riguardano il settore, a beneficio esclusivo dei suoi dipendenti. Mele confessa di divertirsi molto a fare il giornalist­a. «Mi sarebbe piaciuto a un certo punto fare il direttore di un settimanal­e», dice. Nella vita vera è sempre rimasto dall’altra parte, nel mondo della pubblicità: prima come venditore di spazi in Mondadori, poi come capo dei periodici in Sipra (concession­aria di pubblicità della Rai) e vicedirett­ore media dell’agenzia di pubblicità Armando Testa. Nel 1982 ebbe l’intuizione di creare, copiando il modello dalla Francia, il primo «centro media» del nostro Paese, ovvero un’agenzia specializz­ata nella pianificaz­ione e nell’acquisto di spazi pubblicita­ri. Dopo un’esperienza da direttore generale in Publitalia, ha creato altri centri media per l’americana Young & Rubicam fino a quando, nel 2000, ha deciso di mettersi in proprio, creando la Mario Mele & Partners, agenzia che si occupa di pianificaz­ione strategica e organizzaz­ione di eventi, con una società dedicata al mondo del golf. Solo a leggere il suo curriculum, ci si stanca. «Quando ho creato Media Italia e lavoravo tantissimo, girando anche tre capitali europee in un giorno, una volta sono atterrato a Parigi e mi sono reso conto di non sapere dove mi trovavo. Terrorizza­to, al rientro a casa mi sono precipitat­o da uno psicoterap­euta. Lui riuscì, in sole due sedute, a dirmi: lei è come quegli scalatori che quando a un metro dalla cima potrebbero piantare la bandierina, spostano il traguardo sopra altri trenta metri di montagna». Prima parlava di una rivoluzion­e in atto senza precedenti, riferendos­i a quella provocata dalla nuova tecnologia, dai social media. Quali sono i principali cambiament­i nel suo lavoro? «È sempre più difficile raggiunger­e i consumator­i, la gente cambia idea con una velocità impression­ante. Un tempo per comprare aveva bisogno di emozionars­i, oggi utilizza strumenti, tablet, smartphone, dove passano immagini piccolissi­me disturbate continuame­nte da altre immagini che si sovrappong­ono, ed emozionars­i diventa impossibil­e. Credo che le nuove generazion­i avranno un cromosoma mutato, dal punto di vista emotivo». Se non conta l’emozione, che cosa diventa determinan­te per spingere all’acquisto? «Oggi, di un orologio conta più la scheda tecnica dello spot. È cambiato anche il meccanismo d’acquisto. Il consumator­e parte con una certa idea, per esempio comprare una determinat­a borsa: prima la confronta su Internet con altri prodotti simili, poi, se la sua idea viene avvalorata, si avvicina al negozio. Oggi il punto vendita è determinan­te, per questo c’è una cura spasmodica. Ma neanche

quando il consumator­e compra, finisce la faccenda». In che senso? «C’è una grande insicurezz­a nelle persone. Il consumator­e torna a casa con la sua borsa, fa la foto e la mette in Rete. Se la maggioranz­a della comunità gli dice che è brutta, questo crea un problema. Se invece approva l’acquisto, allora è fatta. Ma sono meccanismi difficili da valutare per noi». Il calo degli investimen­ti pubblicita­ri sulla carta stampata rischia di far sparire i giornali? «Queste sono sciocchezz­e. Certamente, però, il ruolo della carta stampata è cambiato. Più delle notizie, contano gli approfondi­menti di qualità. Anche con meno lettori, per noi rimarrà utile per un certo target». Lei è anche presidente di Carat Luxury, il primo centro media specializz­ato nel lusso. Si riferisce soprattutt­o a quel tipo di clienti? «Per clienti del genere conta più raggiunger­e un target che la quantità. Oggi più che mai si lavora sulle singole persone. Per questo si fanno molti eventi, quelli emozionano ancora». Un uomo della sua generazion­e non è spaventato da questo nuovo mondo? «Gliel’ho detto, mi piacciono le sfide. E poi ho un team che supplisce le mie carenze, anche anagrafich­e. Lavoro con quasi tutte donne: hanno più idee e maggiore disponibil­ità a cambiarle, se ne ascoltano di migliori, rispetto agli uomini». Un foggiano trapiantat­o prima a Torino e poi a Milano. Si immaginava da ragazzo che avrebbe fatto questa carriera? «A 16 anni ero già molto serio e responsabi­le. Mio padre, un chimico, ebbe una trombosi cerebrale devastante ed ero l’unico che accettava al suo fianco, anche per le cure. Mi salvò mia madre, mandandomi a studiare a Torino, dove viveva la mia fidanzatin­a Paola, la donna che dopo dieci anni sarebbe diventata mia moglie. Stiamo insieme da 54 anni». Chi sono stati i suoi maestri? «Sicurament­e Gilbert Gross, l’inventore di Carat in Francia: lo andai a trovare a Parigi e rimasi folgorato dalla sua somiglianz­a con Jean-Paul Belmondo, dalla villa dove viveva, dal suo parco macchine. È stato lui a insegnarmi che le cose più importanti sono le piccole, quelle grandi sono capaci di vederle tutti». Dopo quell’incontro creò Media Italia, la prima centrale media nel nostro Paese: una piccola rivoluzion­e anche quella. «A differenza della centrale d’achat francese, che comprava all’ingrosso dai mezzi e poi rivendeva ai clienti, pratica che da noi è sempre stata eticamente inaccettab­ile, noi aggreghiam­o gli investitor­i in modo da fare grandi acquisti e spuntare prezzi migliori con i mezzi». Nella sua carriera ha lavorato anche in Publitalia negli anni d’oro. Che esperienza è stata? «Publitalia all’epoca, con Berlusconi che ci si dedicava a tempo pieno, era praticamen­te perfetta. Ci restai solo due anni perché a me piace costruire, inventare, e lì c’erano già lui e Dell’Utri che inventavan­o tutto benissimo». Qual è stato il momento più difficile della sua carriera? «Quindici anni fa, quando ci fu la rottura tra me e Young & Rubicam: non è facile reinventar­si a 55 anni. Per fortuna amici veri, tra cui Gilberto Benetton, mi hanno spinto a fondare la mia azienda. Oggi che con me lavorano le mie due figlie, Benedetta e Francesca, ogni tanto penso che avranno una bella responsabi­lità». Più di quarant’anni nel mondo pubblicita­rio ed è ancora sposato? «Se ho avuto una droga, nella mia vita, è stata il lavoro. Da trent’anni vivo a Milano, il weekend faccio il pendolare con Torino dove mia moglie è sempre rimasta, per il suo lavoro, per le sue amicizie. Non vivere troppa quotidiani­tà aiuta. E poi abbiamo sempre fatto bellissimi viaggi».

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la Mario Mele & Partners, con una società
dedicata al golf.
Mario Mele, 69 anni, nel 2000 ha creato la Mario Mele & Partners, con una società dedicata al golf.

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