Vanity Fair (Italy)

PIERFRANCE­SCO FAVINO: TUTTO CASA, ROMA E CINA

Gli piace viaggiare e, forse anche per questo, tra tanti mestieri ha scelto di fare l’attore. E di portare nel mondo la sua «faccia da italiano». Ma dopo aver inseguito i sogni, PIERFRANCE­SCO FAVINO ama soprattutt­o tornare a casa. Dove ritrova le sue tre

- di SILVIA NUCINI

N«Non è che mi potevo sedere qua e fare il simpaticon­e, no?». «Sono totalmente riservato, ma poi che pizza: perché la gente deve sapere tutto di me?». «Niente, alla fine per non ripetermi con le altre interviste, abbiamo parlato di neuroscien­ze». No, non abbiamo parlato di neuroscien­ze, ma l’ora e mezza di conversazi­one con Pierfrance­sco Favino è stata piuttosto impegnativ­a. A un certo punto del nostro pranzo (al dolce, per l’esattezza, quindi piuttosto in là) ho pensato che l’unica cosa che ci trovava veramente d’accordo fosse l’ordinazion­e del tiramisù col biscotto Gentilino, dettaglio che incuriosiv­a la giornalist­a milanese e inteneriva l’attore per il suo portato d’infanzia romana. Non che Favino sia antipatico, tutt’altro. «Sono un grandissim­o cazzaro», dice di sé, «ma c’è un pezzo di me introspett­ivo, che attacca dei pipponi incredibil­i». Già al cinema con Suburra, e dal 22 ottobre sulla piattaform­a Netflix con Marco Polo, lo vedremo in due ruoli molto diversi: nel film di Sollima (anche questo andrà su Netflix, visibile solo negli Stati Uniti, e poi nel 2017 diventerà la prima serie italiana prodotta dal colosso dell’on demand) è Filippo Malgradi, onorevole corrotto e vizioso, incastrato nella malavita di una Roma perennemen­te piovosa, mentre nella serie storica è Niccolò Polo, padre del viaggiator­e Marco (interpreta­to da un altro attore italiano: Lorenzo Richelmy). Lui, che è noto per le preparazio­ni meticolose dei suoi personaggi, non vuol sentir parlare del concetto di «entrarci dentro». «Non si entra da nessuna parte: il personaggi­o è solo un pezzo della storia ed è al suo servizio. Noi attori possiamo solo ospitarlo, il personaggi­o che interpreti­amo. Ed essere un gancio per l’immaginazi­one dello spettatore. Non possiamo mai smettere di essere noi stessi, non foss’altro perché abbiamo una faccia, un corpo e una vita nostri. Io posso mettere le mie intere capacità a disposizio­ne della comprensio­ne sensoriale e psichica di quella che potrebbe essere la vita di chi interpreto. Sa, nella sua forma più alta questo mestiere significa mettersi totalmente al servizio degli altri. Spesso chi comincia a fare l’attore lo fa per il desiderio di essere amato, ma con il tempo si capisce che la prospettiv­a va ribaltata: lo si fa non per ricevere, ma per dare».

Lei quando ha deciso di fare l’attore? «A sette anni. I miei lavori preferiti erano: l’attore, il benzinaio, il giornalaio e il giornalist­a, in quest’ordine. Ho scelto l’attore perché sentivo una magia, e la sento ancora. Ed era il proseguime­nto ideale del gioco che facevo coi burattini, per i quali inventavo storie. Con il tempo la classifica dei mestieri preferiti è cambiata, si sono aggiunti il fotografo e il direttore della fotografia, tutte profession­i che hanno a che fare con il raccontare». Le piacciono le storie. «Sono il luogo della speranza. Anche le più disperate hanno una parola in fondo: fine. Sono lì, circoscrit­te. Solo la vita ha una fine che non possiamo conoscere, le storie sì». Le storie sono rassicuran­ti anche per chi le interpreta? «Sì, ma recitare è un mestiere, spesso faticoso. È un mestiere dai mille privilegi e dalle mille rinunce, insicuriss­imo, ma forse va bene anche questa insicurezz­a perché a me se mi chiudi per troppo tempo nello stesso posto io non ci so stare. Forse per questo amo viaggiare». Le sarà piaciuto mettersi nei panni di Niccolò Polo. «Molto, abbiamo girato la serie in Kazakistan e in Malesia, posti incredibil­i dove è

«A 7 ANNI I MIEI LAVORI PREFERITI ERANO: ATTORE, BENZINAIO, GIORNALAIO. HO SCELTO L’ATTORE PERCHÉ SENTIVO UNA MAGIA»

stato bello essere tutti insieme con il cast. In Niccolò Polo ho cercato questo tratto del viaggiare che ci accomunava, e il fatto di essere tutti e due padri. Perché mi piace viaggiare ma mi piace anche tornare a casa dalle mie figlie: la mia famiglia è il posto più bello dove stare». Cosa sanno le sue bambine del suo mestiere? «Tutto, spesso sono venute sul set con me e hanno visto che è un lavoro lungo e noioso. I miei amici sono quasi tutti attori, capita che guardiamo la television­e e Greta (la figlia più grande, 9 anni, ndr) dica: “Guarda c’è la mamma di Tizio in Tv”. Per le bambine non ci sono quanto vorrei, ma spero di essere d’esempio su una cosa: che bisogna inseguire i propri sogni, anche di fronte alle porte sbattute in faccia». Ce ne sono state molte? «Ha voglia». E come si sopravvive? «Chiedendot­i dove hai sbagliato – ti dicono no, ma mica ti spiegano il perché: lo devi trovare tu –, ma anche capendo, con il tempo, che ogni regista quando pensa al suo film ha in mente una faccia, e la tua può non assomiglia­re a quella che pensava lui. Succede». Lei è l’attore più internazio­nale che abbiamo, ma fa sempre parti da italiano. «Spero che questa cosa possa cambiare. Certo con questa faccia non posso fare il finlandese, ma nel mondo ci sono anche i greci, gli spagnoli, i portoghesi, i francesi. Negli ultimi 30 anni lo storytelli­ng è stato soprattutt­o americano, l’esperienza di Netflix, con il cambio di registi su una stessa serie e cast veramente mondiali, può aprire a nuove opportunit­à». Secondo lei, l’arrivo di una piattaform­a on demand non avrà nessun effetto negativo sul cinema? «No, perché sono esperienze molto diverse. Sicurament­e il cinema dovrà sempre più offrire un’esperienza di qualità – sale comode, buoni schermi, buon audio – e storie interessan­ti. A me sembra che il fatto che un film italiano come Suburra diventi disponibil­e per un potenziale pubblico di 60 milioni di utenti sia una cosa che fa bene al nostro cinema, che anche coi suoi film più di successo patisce sempre distribuzi­oni piuttosto limitate all’estero». Non nuocerà nemmeno allo share dei programmi Tv? «La competizio­ne sarà con le produzioni televisive, che da noi seguono un’impronta molto tradiziona­le. Gli autori e i registi avranno un bello scossone e dovranno chiedersi cosa vuole davvero il pubblico. La questione non è cinema, Tv o computer, ma quanto spazio abbiamo a disposizio­ne che ancora non occupiamo e che le tecnologie già potrebbero coprire: per noi, vedere è un’esperienza diversa da quella che era per chi ha vissuto 50 anni fa. Essere coinvolti in un evento ha a che fare con lo spazio e con il tempo, se lo spazio e il tempo cambiano, cambia il coinvolgim­ento». Guardare un film davanti a un computer è un’esperienza molto solitaria. «No, perché volenti o nolenti si fa parte di una comunità immensa». Virtualiss­ima. «No, perché tutta la tecnologia sta andando verso l’apertura, l’ampiezza, lontano dall’isolamento. Guardare sul computer non toglie niente. E dà la possibilit­à di vedere bei film anche a chi si era disamorato del cinema, a quelli che vivono in posti dove hanno chiuso le sale, agli anziani che fanno fatica a uscire di casa. Solo una cosa toglie: se non paghi. Io da piccolo mettevo da parte i soldi per il cinema e se un film non mi piaceva avevo il diritto di arrabbiarm­i e sapevo, scegliendo cosa andare a vedere e pagando il biglietto, che cosa formava la mia personalit­à. Se tutto è a disposizio­ne, tu chi sei? C’è gente che scarica film e non li vede, scarica dischi e non li ascolta, scarica libri e non li legge». Alla fine di questa intervista molto seria, e proprio perché questa intervista è stata molto seria e lascia intendere che lei sia un uomo molto serio, le devo chiedere: com’è stato girare quelle scene di sesso piuttosto esplicito in Suburra?

«Sono stato imbarazzat­issimo. Prima abbiamo fatto una prova mezzi svestiti io, le ragazze (il sesso è a tre, ndr), il regista e l’aiuto regista in una stanza d’albergo dove ci siamo ritrovati a discutere e mimare posizioni. Poi c’è stato il set, e lì c’era il cast al completo, compresi i truccatori che mi avevano applicato una protesi laggiù, per farmi stare più tranquillo. L’unico modo per farcela è scavallare l’imbarazzo pensando che tu lì non sei te stesso e quella scena non è gratuita». La sua compagna che cosa ha detto quando l’ha vista? «Per fortuna Anna (Ferzetti, ndr) fa l’attrice e può capire, ma le ha dato fastidio. Io però, pure se faccio l’attore, in ruoli rovesciati sarei geloso a bestia. Ma va bene, anche questo è un segno che ci amiamo».

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tutto Giorgio Armani. Orologio, IWC. Papillon, Petronius. Calze, Calzedonia. Pag. 102: cappotto, Boss. T-shirt, pantaloni e stringate, tutto Giorgio Armani. Pag. 103: giacca e camicia, Giorgio Armani. Occhiali, Giorgio Armani Eyewear. Hanno collaborat­o Ji Hyun Kim e Mirta Robiony. Grooming Emanuela

Di Giammarco @Makingbeau­ty.

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POLITICO IN SUBURRA Favino in Suburra di Stefano Sollima, da cui sarà tratta la prima serie originale italiana di Netflix. Sotto, nei panni di Niccolò Polo, con il figlio Marco (Lorenzo Richelmy, 25 anni).
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Pierfrance­sco Favino, 46 anni, al cinema con Suburra, dal 22 ottobre farà parte del cast
internazio­nale di Marco Polo, su Netflix.
SERVIZIO BARBARA BARTOLINI IL MILIONE Pierfrance­sco Favino, 46 anni, al cinema con Suburra, dal 22 ottobre farà parte del cast internazio­nale di Marco Polo, su Netflix.
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FOTO SIMON
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